venerdì 30 maggio 2008

PALERMO, ACCOLTELLAMENTO OMOSESSUALE: NON UNA STORIA DI PERIFERIA

CENTONOVE
30 Maggio 2008
L'ANALISI
SIAMO TUTTI RESPONSABILI
Francesco Palazzo


La vicenda dell’accoltellamento familiare del giovane omosessuale palermitano potrebbe essere letta, com’è, di fatto, avvenuto nel classico modo. Ci troviamo in un quartiere periferico, Brancaccio, anche se la via dove si è verificata l’aggressione, a volere essere precisi, non ricade in quel rione. Ma tutto fa brodo e concorre a dipingere, presso la pubblica opinione, il quadretto del quartiere difficile dove è quasi normale che accada un fatto del genere. Possiamo vederla legittimamente così e archiviare l’evento nel settore “vite impossibili in sobborghi abbandonati”. Oppure si può provare a darne una lettura meno conformistica e, forse, più realistica, andando oltre il mero e certamente grave fatto di cronaca. Allora dovremmo cominciare dicendo che l’omosessualità non è accettata un po’ ovunque. Sia nei quartieri definiti come marginali, sia in quelli contrassegnati dai marchi della centralità geografica, della floridezza economica e della, presunta, apertura culturale e mentale. Sarà capitato anche a voi, come si cantava nell’omonimo film, di sentire, in ambienti diversi, che certo comprendono anche quelli popolari, ma che sovente coincidono con spaccati di vita borghesi, i risolini, le battute, le derisioni, l’avversione, quando la discussione tocca l’argomento dell’omosessualità maschile. Nel corso di conversazioni informali, anche durante incontri più che formali, possiamo vedere il professionista, l’alto dirigente, il medico, l’avvocato o il parlamentare, l’intellettuale impegnato e l’elenco, come sapete, potrebbe essere lungo, districarsi tra un’occhiata complice e un’implicita o esplicita dichiarazione di sarcastico ribrezzo. Il macho con giacca e cravatta, che abita ovunque, che può votare qualsiasi partito e che assume anche le sembianze dello studente universitario vestito come detta la moda e come possono i danarosi genitori o quelle dell’impiegato di fatica del grande magazzino, non accetta, molto semplicemente, che possa esserci un diverso orientamento sessuale. E allora, in determinati momenti, sente l’esigenza dell’espressione scherzosa, che sembra innocua nella forma, ma è corrosiva e violenta nella sostanza. A maggior ragione se viene pronunciata da persone che, per cultura e posizione sociale, sanno bene quanto le discriminazioni si nutrano di tali modalità relazionali e comunicative. Oltre la battuta si avverte l’urgenza di sbandierare la propria spiccata ed esagerata eterosessualità, peraltro molto spesso più raccontata, narrata nei palcoscenici ufficiali, che veramente vissuta. Insomma, dei machi più teorici che pratici, che intendono la sessualità solo in un unico senso. Ma che, in un numero di casi sempre maggiore, come ci dicono le statistiche, non riescono serenamente a vivere la loro dimensione affettiva con il sesso femminile. Detto tutto ciò, va chiarito che la responsabilità penale è sempre personale. E, pertanto, ogni padre che aggredisce e ferisce il figlio che dichiara la propria omosessualità, come accaduto a Palermo, ne risponde ovviamente di fronte alla legge. Tuttavia, lo sfondo dove collocare quanto avvenuto nel capoluogo, che si voglia ammetterlo o no, è ben più ampio di un quartiere di periferia. Ci rimanda a come siamo in quanto uomini, termine in questo caso non inteso nel senso di genere umano, ma nell’accezione di maschio. Non è da trascurare, infatti, che in questo, come in tanti casi, la mamma ha accettato la dimensione sessuale del figlio e abbia cercato di proteggerlo. Non è una regola, perché può verificarsi qualche eccezione. Ma le donne generalmente, al contrario di noi maschi, semianalfabeti in quanto a sentimenti e corporeità, generando la vita, ne conoscono bene la profonda complessità e ne custodiscono ogni espressione. Non ritenendone nessuna estranea alla libera e integrale realizzazione della persona.

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