sabato 20 dicembre 2008

Il gioco dell'oca dell'antimafia

CENTONOVE
19 12 2008
Pag. 39
ERGASTOLO, QUANDO SERVE
Francesco Palazzo
Gli uomini (e le donne) di Cosa nostra, delle mafie di qualsiasi risma e colore, resisi protagonisti di fatti di sangue gravissimi e dichiarati colpevoli in via definitiva, per tali reati, dai tribunali italiani, hanno un solo modo per far diventare la loro pena rieducativa, nel rispetto del relativo principio costituzionale. Devono collaborare con lo Stato in maniera piena e incondizionata. Rivelando fatti, complicità, relazioni politiche, consegnando ricchezze e svelando i rapporti delle organizzazioni criminali con il mondo dell’economia, delle professioni e con il popolo minuto. Questo è il primo pensiero che viene sapendo che è ricominciata, da inizio dicembre, con lo sciopero della fame a staffetta dei detenuti, la protesta degli ergastolani di tutta Italia, tra cui, evidentemente, anche tanti mafiosi condannati alla massima pena per reati gravissimi. L’oggetto del malcontento in Italia, che si inserisce nell'ambito della campagna internazionale per l'abolizione dell'ergastolo, la sua finalità immediata, è premere affinché sia discusso in parlamento il disegno di legge, presentato al Senato, all’inizio del 2007, da un’esponente di Rifondazione Comunista. Partito che ancora sostiene fortemente tale battaglia, pure a livello delle istituzioni europee, in nome della considerazione che qualsiasi pena deve tendere alla riabilitazione del condannato, e l’ergastolo non prevede alcuna fuoriuscita dalle prigioni per i condannati a vita. Il disegno di legge citato mira all’eliminazione dell’ergastolo e alla sua sostituzione con la pena massima di anni trenta. Senza differenze, questo è il punto, tra chi ha ucciso la moglie, il marito o i vicini in un momento di rabbia, o anche con netta volontarietà o lucida premeditazione, e coloro che, programmandole in ogni punto, si sono resi partecipi, in nome e per conto di un’organizzazione criminale, di stragi mafiose, omicidi singoli o delitti particolarmente efferati. Ricordiamo solo le stragi del 92, quelle nel continente del 93 o la soppressione del piccolo Di Matteo. Perché il disegno di legge, quando parla di abolizione dell’ergastolo, non pone differenze tra un delitto occasionale, sia pure culminato nell’uccisione di una o più persone, e le azioni più gravi delle organizzazioni mafiose? Vorremmo ricordare che l’abolizione della massima pena detentiva era, a quanto risulta da svariate fonti, uno dei punti principali, forse il vero obiettivo, del famoso papello. Cioè della lista di richieste che Cosa nostra avrebbe presentato allo Stato, dopo le stragi di Capaci e di Via D’Amelio, per finirla con la strategia stragista dei primi anni novanta. Mi pare corretto non dimenticare tale frangente della storia siciliana e italiana, perché altrimenti la lotta alle mafie si trasforma in una specie di gioco dell’oca. Dove a un certo punto, chissà per quale motivo, si è costretti a resettare tutto, come si fa con i computer, e ricominciare da capo. Sino al prossimo periodo emergenziale, al successivo omicidio eclatante di qualche esponente delle istituzioni e, perché no, sino alla prossima strage. In questi frangenti, è già successo diverse volte, molti si stracciano le vesti e invocano strumenti legislativi, penali e restrittivi particolarmente duri. Poi passano gli anni, il pendolo torna indietro, si attraversa una fase di bonaccia con una mafia silente per fatti di sangue, e proprio per questo, lo sappiamo, più forte e ricca, e si allenta la tensione. Tanto da proporre, ed è stato per primo il centrosinistra a farlo in Italia nel corso della passata e breve legislatura nazionale, l’abolizione del “fine pena mai”. Riteniamo che tale discussione vada fatta con responsabilità, distinguendo tra i reati e tenendo presente l’agenda storica di questo paese, molto diverso dagli altri. Perché, se è vero che negli altri paesi europei l’ergastolo o non è previsto (in verità in poche nazioni, se non erriamo tre) o è attuato ricorrendo a misure sostitutive dopo un determinato numero di anni, è anche lapalissiano, assodato, indiscutibile, che nessuna nazione dell’Unione Europea è segnata dalle mafie come l’Italia. Le quali mafie hanno in pugno, oggi non vent’anni addietro, che lo si voglia ammettere o meno, metà del paese e sono già ben insediate nell’altra metà. Non si possono chiudere gli occhi davanti a ciò. Dunque, più che chiederci quando ci sarà la cancellazione del “fine pena mai”, senza distinguere tra mafiosi e non, dovremmo sposare la campagna: “fine mafie, quando”?

Da Brancaccio al Brancaccio

LA REPUBBLICA PALERMO VENERDÌ 19 DICEMBRE 2008

Pagina XVI
L´ANTIMAFIA DI BRANCACCIO
Francesco Palazzo


Da Brancaccio al Brancaccio sembra un facile gioco di parole. Solo che Brancaccio è un quartiere conosciuto dall´opinione pubblica per la criminalità mafiosa e il Brancaccio è uno dei teatri più prestigiosi d´Italia. L´incontro tra le due realtà non è neppure facile pensarlo, figuriamoci realizzarlo concretamente. L´associazione Quelli della Rosa Gialla (www.quellidellarosagialla.it) è riuscita a creare questo ponte Palermo-Roma. Un gruppo che, da anni, partendo da un quartiere difficile del capoluogo, sempre che ve ne siano di facili, fa del musical impegnato una sorta di missione. Il 22 dicembre, come già anticipato dal nostro giornale, calcherà le scene del teatro romano, diretto da Maurizio Costanzo, con la favola musical "Father Joe". La sceneggiatura parte dall´attentato alle torri gemelle. Un ragazzo americano intende arruolarsi per vendicare il suo paese. Il destino lo porta in un´isola del mediterraneo, scopre la tragedia dei profughi clandestini e il messaggio di Padre Puglisi. Questa la trama. Ma conta, forse di più, un altro copione. Con una mafia che tenta di rialzare la testa, ammesso che l´abbia mai calata, e non ci pare proprio, è importante sottolineare che Brancaccio giunga nella capitale non per un omicidio di mafia, ma perché esporta cultura. La sede dell´associazione è nei locali attigui a quelli dove Puglisi celebrò messa per qualche anno. I locali della chiesa di San Gaetano erano in ristrutturazione e un auditorium si riempì di panche, sedie e un altare per celebrare messa. È una prossimità non soltanto logistica quella del gruppo con don Pino. Proprio la rosa gialla era il fiore che più piaceva al parroco ucciso dalla mafia. Molti dei centonove protagonisti del musical, che partiranno con due pullman dal rione, sono ragazzi e ragazze battezzati da Puglisi. Sono, questi, dei segni che vanno colti con attenzione, perché la sola repressione, anche quella pur significativa di questi giorni, poco può fare per risanare un tessuto sociale che rigenera continuamente criminalità. La tela va ricucita facendo tesoro di queste significative esperienze locali, periferiche e incoraggiandole. A Palermo ve ne sono altre. Che rimangano spesso nell´anonimato. La sfida per il gruppo di Brancaccio non è semplice. Se finora è stato agevole riempire diversi teatri palermitani, come il Politeama o l´Orione, non sarà così agevole mettere insieme 1.400 spettatori, quanti ne può contenere il Brancaccio, a circa mille chilometri di distanza. Allora è partita l´iniziativa "Manda un amico al Brancaccio". Chi ha parenti o conoscenti nella capitale è invitato a convincerli a staccare un biglietto d´ingresso (10 euro). Daranno una mano le tre pasticcerie romane Ciuri Ciuri, che producono prelibatezze sicule. Anche un membro di Economia Alternativa, con sede presso la casa generale di Roma dei Padri Comboniani, raccoglie i soldi, si reca al botteghino e poi consegna i tagliandi ai destinatari. Ai Comboniani è legato il finanziamento di un progetto. Con una parte dell´incasso, l´associazione contribuirà ad assistere, in Uganda, un gruppo di bambini che hanno fatto, come soldati, l´esperienza della guerra. «C´è chi potrebbe dire: non dovrebbe pensarci lo Stato? Intanto pensiamoci noi. Se ognuno fa qualcosa, insieme possiamo fare molto». Così soleva dire lucidamente don Puglisi. La mafia è ancora forte come ai tempi in cui lui fu fatto fuori. Non bisogna farsi illusioni. Tante retate, nel passato, hanno fatto sperare che fosse suonata la campana dell´agonia sulle cosche. Poi, anno dopo anno, si scopre che il crimine fattura decine di miliardi di euro e quindi tanto male in salute non starà. Allora ci vuole la fatica delle formiche per invertire il senso di questa storia. In tal senso può capitare, in attesa che le istituzioni facciano per intero il loro lavoro, che un gruppo consistente di cittadini, sulla scia del lascito di Puglisi, muovendo dal quartiere dove egli verso il suo sangue, invece di attendere con le mani in mano lagnandosi in continuazione per l´assenza dello stato, decida di prendere in mano il proprio destino. Facendo diventare percorribile lo slogan «da Brancaccio al Brancaccio».

sabato 13 dicembre 2008

Palermo, cimitero Rotoli, divieti eucaristici

CENTONOVE
12 12 08
GALEOTTO IL PANCINO SCOPERTO
Francesco Palazzo


Al cimitero palermitano dei Rotoli, da più di un anno, c’è una zona chiusa per sicurezza dopo la caduta di un roccione dalla montagna sovrastante il camposanto. Di fronte a un pericolo fisico è giusto prendere le dovute precauzioni. Una notizia come tante. Anche se non si capisce come mai ci voglia quasi un anno e mezzo (i lavori di messa in sicurezza termineranno a marzo 2009) da parte dell’amministrazione comunale per appaltare e fare eseguire lavori di questo tipo. Ma, andandoci recentemente, abbiamo visto che, oltre l’impedimento per visitare i corpi dei defunti che si trovano nell’area interessata, c’è pure un inciampo pesantissimo per lo spirito. Che però, a differenza del primo ostacolo, non ha scadenze, pare rivolto all’eternità e non a qualche mese di qualche anno a venire. I cartelli affissi dentro la cappella del camposanto sono chiari: “E’ vietato accostarsi all’eucaristia con il ventre scoperto e altri indumenti indecorosi”. L’eucaristia è, per i cattolici, il momento più denso di significati religiosi ed esistenziali. Non occorre essere fini teologi o biblisti per saperlo. Bloccarne l’accesso, per futili e inconsistenti motivi, è cosa di una certa gravità. Sarebbe come vietare il voto, momento più alto della vita civile, a chi non è vestito nel modo che piace al presidente del seggio. Al cimitero non si va per fare scampagnate o rimpatriate tra compagni di scuola. Non si entra al camposanto con l’ombrellone in una mano e la teglia con la pasta al forno nell’altra. Ci si trova tra quei viali per accompagnare o visitare un nostro caro. O per mostrare solidarietà a qualcuno colpito da un lutto. A tutto si pensa, tranne che a scoprirsi il ventre, o qualcos’altro, indossando indumenti indecorosi. Che vorremmo capire, poi, in cosa consistano. Quando, esattamente, scatta il limite e un abito diventa, da decente, non più dignitoso? E il ventre, di quanto deve essere scoperto, per incappare nell’impossibilità di prendere l’eucaristia? Tuttavia, un cartello, a volerlo leggere bene, dice sempre più cose di quelle scritte. E, nel caso specifico, l’obiettivo del severo richiamo, preventivo e definitivo, è solo una parte dell’universo sessuato, la donna. I riferimenti al ventre scoperto, che ci destano alla mente la relativa danza, e agli abiti indecorosi, lasciano intuire che potrebbe venire fuori qualche pezzo di carne femminile di conturbante ammirazione. Tale da impedire ai fedeli più casti, e ovviamente integralmente abbigliati, che ad altro dovrebbero pensare al cospetto della morte, di accostarsi all’eucaristia senza sussulti ulteriori se non quelli determinati dalla fede. Che, evidentemente, se basta qualche centimetro di pelle a traviarla, così tanto granitica non dovrà essere. In genere, queste cose vengono fatte notare da chi, e sono tra quelli, non frequenta abitualmente le chiese. Coloro che ci vanno spesso, hanno fatto l’abitudine a questo tipo d’imposizioni. Tanto che ci raccontavano di un parroco siciliano di un piccolo comune della provincia di Palermo. Un sacerdote di quelli sanguigni e ieratici. Il quale, durante la più importante messa domenicale, ha tuonato dall’altare, rosso in volto, intimorendo tutta l’assemblea, nel seguente modo: “Per questa volta, a quella ragazza vestita in quel modo, ho concesso l’ostia consacrata. La prossima volta, ditelo ai familiari, non se ne parla nemmeno". Senza che ciò abbia provocato, non dico i fischi che si rivolgono all’arbitro che non assegna il rigore evidente, ma almeno un leggero malumore o un turbamento esplicito, nei presenti. Se i fedeli si abituano a tutto, speriamo che non lo facciano gli arcivescovi. Quando c’è capitato di leggere il cartello ai Rotoli, tutto era pronto per la visita di colui che attualmente guida la diocesi palermitana. Speriamo, ma ci permettiamo di nutrire fondati dubbi, che abbia convinto chi di dovere a togliere quell’avviso. Se è ancora lì, vuol dire che lo condivide. Non è il modo di vestirsi a violare i luoghi sacri. Non è il corpo scoperto che li offende. Ma il cuore, la mente, lo spirito, la fede di chi vi sta da padrone e giudica chi e come possa entravi.

giovedì 11 dicembre 2008

Madonie: cosa fanno i privati?


LA REPUBLICA PALERMO - GIOVEDÌ 11 DICEMBRE 2008

Pagina XVI

DECLINO TURISTICO SULLE MADONIE
Francesco Palazzo



Le Madonie sono in ginocchio, quest´anno non sarà possibile sciare. Molti alberghi e ostelli chiudono o già da tempo hanno abbandonato il campo. Da un articolo pubblicato su questo giornale il 6 dicembre, firmato da Ivan Mocciaro, apprendiamo che lo skilift, cioè l´impianto di risalita per gli sciatori, non sarà riaperto per la scadenza delle autorizzazioni. Pare che occorrerebbe un provvedimento della Regione per consentire alla Provincia di realizzare la seggiovia. Dunque, le istituzioni hanno le loro colpe, forse non tutte le amministrazioni locali hanno fatto il possibile per rilanciare l´area. Ma, si sa, la neve in Sicilia rappresenta un evento tutto sommato eccezionale. La stagione sciistica, chiamiamola così, nelle Madonie dura solo per un breve periodo. Da dicembre a febbraio, skilift funzionanti o meno, si registra una certa affluenza di un turismo giornaliero, mordi e fuggi, proveniente da tutta la provincia di Palermo. Un afflusso che non è in grado di risollevare le sorti di alberghi, rifugi, ostelli e ristoranti. Occorrerebbe essere capaci di attirare un flusso turistico diverso, più strutturato, più fidelizzato, in grado di fare da cassa di risonanza per nuovi arrivi anche durante gli altri mesi dell´anno, quando la neve si scioglie e c´è solo il deserto. Come quello che potete ammirare se vi capita di percorrere, in estate, in primavera o in autunno inoltrato, la suggestiva strada che collega Collesano alle Petralie. Ora, il punto sembra essere il solito. Gli imprenditori turistici, che operano nella zona, lamentano una scarsa presenza delle istituzioni, vicine e lontane. Non mettiamo in dubbio che ciò corrisponda a (parziale) verità. Tuttavia, per completare il ragionamento, e non limitarsi al solito deresponsabilizzante piagnisteo, bisognerà pure chiedersi cosa fanno, mentre le istituzioni latitano, gli operatori del settore. Facciamo solo due esempi, che non vogliono certo descrivere la totalità di quanti sono impegnati a fornire accoglienza ai visitatori. Qualche anno addietro alla Montanina, un tempo splendido albergo e oggi abbandonato, nei giorni intorno a ferragosto c´è capitato di vivere un´esperienza allucinante. A fronte di un pacchetto che comprendeva per alcuni giorni vitto e alloggio, ci siamo trovati a dovere fare i conti con una pessima e improvvisata gestione. Tanto che per la cena della sera di ferragosto ciascuno degli ospiti ha dovuto darsi da fare per racimolare qualche cosa da mangiare, improvvisandosi anche alla brace, tra le poche cibarie proposte. Un altro esempio, recentissimo, riguarda un bed and breakfast di un paese madonita. La struttura è nuova e carina. Solo che, al momento di pagare, il gestore, senza alcun motivo, applica una maggiorazione di dieci euro sul prezzo abituale, giustificando la cosa con il fatto che in particolari occasioni, era in corso una sagra, c´era un accordo tra gli esercenti in tal senso. A parte il fatto che, proprio in occasione di eventi particolari, si dovrebbe cercare di attrarre turismo con prezzi ancora più bassi del solito, abbiamo avuto poi modo di appurare, informandoci altrove e con lo stesso sindaco, che non era stata pattuita alcuna maggiorazione. E anche quando fosse stata concordata, era corretto avvisare la clientela al momento della prenotazione. Lo stesso sindaco ci assicurava che si era recato presso tutti gli addetti per accertarsi che i prezzi non avrebbero subito variazione alcuna. A dimostrazione che talvolta gli amministratori sono più avanti, come mentalità, degli operatori sul territorio. Del resto, proprio in quei due giorni, l´amministrazione aveva dato modo ai ristoratori e agli albergatori di riempirsi di clienti. Andando spesso nelle Madonie, qualche altro caso, simile ai due di prima, potremmo citarlo. Così come è giusto riferire, ma dovrebbe essere la norma, che non mancano casi di corretta e gentile ospitalità. Ma il succo del discorso è il seguente: più che lamentare continuamente l´assenza dello Stato, specialità tipicamente siciliana e del Sud in genere, ci si dovrebbe impegnare a fare per intero il proprio dovere. Proponendo e attuando progetti di sviluppo e promozione, senza aspettare che sia sempre ed esclusivamente la mano pubblica a intervenire. Soprattutto, offrendo qualità e sapendola vendere. Con la neve e con il sole.

sabato 6 dicembre 2008

Natale, Palermo al buio metafora della Sicilia

LA REPUBBLICA PALERMO - SABATO 6 DICEMBRE 2008

Pagina XXII
LE LUCI SPENTE SULLA SICILIA
Francesco Palazzo


Né gli alberi di Natale maestosi nel centro delle città, né le sgargianti luminarie per le vie più gettonate, hanno mai cambiato la vita a nessuno. Tuttavia, il buio in cui a meno di sorprese sarà avvolto il capoluogo per le festività natalizie e di fine anno, è un simbolo, se volete forse il più banale, del fosco presente che vivono Palermo e la Sicilia. Segno che la politica non viaggia più sul piano del consenso e su questo costruisce buona amministrazione. Perché, se così fosse, l´amministrazione palermitana, ossia la maggioranza che la sostiene, che ha ottenuto alle ultime elezioni più del 60 per cento e oltre 216 mila voti, distanziando i secondi di più di ottantamila voti e sommergendoli con una differenza percentuale del 23,1, potrebbe lavorare con la necessaria serenità per illuminare, non solo a Natale, la comunità palermitana. Il fatto è che ciò non succede. E allora potremmo, con molte ragioni, dire che il voto degli elettori non è deriso solo dalle liste bloccate, senza possibilità di scelta alcuna, che hanno formato il parlamento nazionale. Ma è altresì, e forse in maniera più grave, disprezzato anche quando si può esprimere una preferenza tra le mille e più che si propongono per amministrare un grande comune, quale è il capoluogo della quinta regione del paese. Se a ciò aggiungiamo che la legge elettorale prevede un´ulteriore elasticità a favore del votante, cioè la possibilità di dare due voti diversi per i candidati a sindaco e i concorrenti al consiglio comunale, abbiamo la prova del nove che neanche le leggi elettorali più coinvolgenti, in termini di scelte potenziali, garantiscono un fico secco. Dopo le elezioni l´assetto amministrativo-politico, messi in cantiere gli slogan, se ne va per i fatti suoi e risponde solo ed esclusivamente a logiche di spartizione tra i partiti, nei partiti e tra i singoli. Solo queste contano. Basti pensare, per dirne una, che la lista degli assessori che un sindaco mette in campo durante la campagna elettorale è solo una disposizione di pedine che descrive i rapporti di forza nello schieramento che lo rappresenta. Non appena si vince tutto cambia, altri nomi entrano in scena. E non finisce qui. Durante la legislatura gli assessori si alternano con la stessa turbinosa velocità che hanno le pale di un impianto eolico durante una bufera di vento. Non parliamo poi dei programmi. Anche lì siamo nel campo della pura finzione letteraria, oltre che politica. Le cose fondamentali, le più incisive, che si faranno durante un mandato, saranno non già le conseguenze di un patto con gli elettori, ma la risultante di improvvisate decisioni. Che maturano per assecondare dinamiche che via via mutano sull´altare degli scontri tra fazioni. La legge elettorale dovrebbe prevedere non solo la libertà di scrivere un nome o di mettere la croce su uno dei candidati a sindaco. Gli elettori dovrebbero eleggere una vera e definitiva squadra di assessori e scegliere un chiaro programma politico fatto di pochi e qualificanti punti sugli ambiti strategici delle città. Si dirà che distorsioni simili accadono anche negli altri livelli di rappresentanza regionale. E questo conferma e aggrava il ragionamento che stiamo facendo. Forse qualcuno si prenderà la briga di andare a vedere quali erano i nomi che ufficialmente erano stati avanzati, prima delle elezioni, per la giunta della Provincia di Palermo e come poi essa è stata effettivamente composta. Così come molti si chiederanno che senso ha avuto eleggere un governo regionale con un quasi plebiscito. Per poi ritrovarcelo, scogli scogli, a non avere la forza di portare avanti un programma, non di altissimo livello per la verità, se non cercando i voti dell´opposizione. Che forse può festeggiare le cadute del governo regionale all´Ars, ma non si rende conto che dovrebbe, in primo luogo, preparare l´alternativa. Insomma, il buio natalizio di Palermo, ancorché triste, viene forse al momento giusto per farci riflettere sul senso che diamo alle parole democrazia e rappresentanza. Non a livello planetario, ma in ambito locale e regionale.