mercoledì 29 gennaio 2014

Il merito in Sicilia viaggia sott'acqua e non si vede.

La Repubblica Palermo

28 Gennaio 2014 - Pag. I

In morte di un ricercatore precario

Francesco Palazzo




La morte del ricercatore messinese, la settimana scorsa, tra le acque dell'Antartide, ci consegna la figura di un appassionato del suo lavoro che a quaranta anni, con un curriculum eccellente, era un precario che guadagnava, così leggiamo, 800 euro al mese con contratto a tempo determinato. Un suo collega ha dichiarato che «il mondo universitario avrebbe dovuto da tempo riconoscere le doti, la passione, la preparazione di un ricercatore che proseguiva tra la nebbia delle mille promesse, concorsi, finanziamenti e contrattini: la sua caparbietà non doveva essere esaltata postuma». invece è andata così. Continua una collega. «Era il migliore tra di noi, sarebbe potuto andare ovunque, invece ha scelto di restare in Italia perché ci credeva e aspettava fiducioso che arrivasse il suo momento, vista la sua evidente competenza». È morto sott'acqua Luigi Michaud. Quest'immagine ci consegna, ad di là della casualità del fatto specifico, la condizione di quanti in Sicilia studiano, si specializzano, accumulano master e, sol perché non hanno mai rovesciato un cassonetto sotto i palazzi del potere, rimangono invisibili, sotto il livello del liquido quotidiano della cronaca. Forti del loro sapere e saper fare, ma con un presente di stenti e poco futuro. Sono tantissimi ma non contano nulla. Un giovane agronomo mi raccontava che lui ormai vive di contratti derivanti dai finanziamenti europei. È anch'esso competente, aggiornato, parla con cognizione di causa della sua professione, ma deve vivere alla giornata. C'è anche quella ragazza che non ce l'ha fatta più ad inseguire il sogno della docenza universitaria, troppo pochi i fondi e nulle le speranze. Alla soglia dei quaranta anni vive con un contratto in un altro ente, che spera possa essere rinnovato più volte possibile affinché possa ambire alla stabilizzazione. Che magari giungerà quando lei veleggerà verso i cinquanta. Del resto, anche chi ancora è ai primi passi nel mondo universitario sa che qui c'è poco da sperare. E allora a cena ti racconta di quel fratello trentenne del suo conoscente, ingegnere gestionale, che qui non aveva niente e che a Los Angeles guadagna 14 mila dollari. Anche lei pensa di fare la stessa cosa. E ne discute come se la città californiana fosse proprio dietro l'angolo. E forse, nell'immaginario di una giovane ragazza, proprio lo è per chi già ha capito che terra amara è la Sicilia per chi ha troppo studiato. È meglio non avercela in Sicilia una professionalità che ti fa essere un mago del computer, un esperto di finanziamenti internazionali, un onesto e preparato consulente nel E campo della comunicazione. Perché è proprio di questi profili, che talvolta fanno crescere solo per breve tempo le pubbliche amministrazioni, lo spazio di qualche contrattino annuale, dove magari non ti pagano per mesi, che la Sicilia, forse l'Italia intera, non sa che farsene. Giocando tutto il suo orizzonte, angusto e pieno di tante giovani e preparate teste che vanno via, nel rinnovare, stabilizzare, creare questo o quel pezzo di precariato. Dicendo sempre che è l'ultima volta e dove l'ultima cosa che conta non è quello che sai fare, come lo sai fare e quanto hai studiato. E non si pensi, troppo semplicisticamente, che le colpe ricadono tutte sul sistema politico e universitario. È la società siciliana, fatta da diverse generazioni, che ha creato un sistema di questo tipo. Ciascuno ci ha messo del suo. La filosofia è quella del che male c'è se anch'io inserisco il mio piccolo pezzo nel grande mosaico della spesa pubblica che deve garantire stipendi e non selezionare per meriti. Ma sono discorsi di poco momento. Che ti vengono in testa quando senti di un giovane professionista siciliano che ci rimette la vita per passione, non pensando al magro bottino degli ottocento euro mensili e alla sua precarietà lavorativa. Oggi è un altro giorno. Anzi, acqua passata. Il gioco può continuare a procedere per come lo conosciamo già.

lunedì 27 gennaio 2014

La Teologia della Liberazione. Dall'America latina a Brancaccio.


La Repubblica Palermo

26 Gennaio 2013 - Pag. 12

LA CHIESA CHE VERRÀ CON LE NUOVE REGOLE

Francesco Palazzo

LA TEOLOGIA della liberazione, (TdL), Rosario Giuè l'ha sperimentata nella seconda metà degli anni Ottanta, da parroco, a Brancaccio prima che a San Gaetano giungesse Puglisi. L' autore parte da due punti fermi. Qualsiasi cambiamento non può considerare con sufficienza le religioni. Riflettendo sulla fede dal quotidiano, si fa teologia. Il libro passa in rassegna la TdL, nata in America Latina, dal 1960 a oggi. Il punto di vista di ogni teologia non è neutrale. Quello della TdL sono i poveri. In occidente sul pubblico prevale il privato. Nella TdL, la salvezza è nella storia. Partendo dai conflitti, si aiutano vittime e carnefici a liberarsi, rispettivamente, da oppressioni e peccati. La lettura della Bibbia muove dal concreto (salari, scuole, territorio), privilegiando il Cristo politico. Sul monoteismo, prevale la trinità, simbolo di partecipazione. Se il popolo vive la democrazia, chiosa Giuè, perché non lo fa anche la chiesa? In tale percorso le comunità di base lavorano al cambiamento, senza attenderlo dall'alto. Dagli anni Ottanta, nella TdL, donne sempre più protagoniste, contro il maschilismo dei linguaggi e dei ruoli. Giuè ricorda che Roma ha punito le migliori teste della TdL. Alla fine auspica che con Francesco possa esserci una chiesa che, senza trionfalismi, annunci un vangelo di liberazione.


Chiesa e Liberazione, Tau Editrice, 2013, 104 pagine, 8 euro

sabato 4 gennaio 2014

Peppino Impastato e gli occhiali, proviamo a vederla diversamente.

La Repubblica Palermo

3 Gennaio 2014 - Pag. I
Grazie a quel video le parole di Peppino diventano globali
Francesco Palazzo

Si contano ormai sulle dita di molte mani le polemiche sull'utilizzo di simboli mafiosi o antimafiosi. Ogni qualvolta, ad esempio, va in onda una ricostruzione che racconta con la lente d'ingrandimento le gesta degli esponenti di Cosa nostra, opposti ai pochi che nello Stato o nella società l'hanno combattuta, si sottolinea, quasi sempre, che non è corretto fare emergere queste forti personalità criminali in quanto si rischia che l'opinione pubblica ne abbia un'immagine positiva e che i più giovani si sentano portati quasi ad emularli. Stesso discorso, mutatis mutandis, quando ci si cimenta nel tentativo di raccontare, mettendole in primo piano, le vittime della criminalità mafiosa. Coloro che sono stati più vicini a tali biografie, talvolta con buone ragioni, parlano sovente di mistificazioni o tradimenti. Il punto, in entrambi i casi, è che ci si scorda che tali opere parlano non ai vicini, ossia a coloro che possono, sulle singole vicende, spaccare il capello in quattro, ma a spettatori generalisti. Ai quali alcuni concetti, che richiederebbero un fiume di convegni per essere esplicitati a dovere, devono per forza di cosa essere trasferiti con poche immagini e con un certo trascinamento emotivo. Altrimenti si cambia canale o non si staccano i biglietti dei cinema. Anche la pubblicità ha sovente utilizzato questo tipo di medium per propagandare prodotti. Sinora, se ricordiamo bene, è accaduto che si sia fatto l'occhiolino compiaciuto alla cultura e alle parole del lessico mafioso. E ciò, ogni volta, è stato fatto notare con robuste rivendicazioni. Ora, proprio in questi giorni, si sta discutendo di un video pubblicitario in cui transita un messaggio sulla bellezza appartenuto (in realtà è un passaggio della sceneggiatura del giustamente fortunato film "I cento passi" ripreso dagli autori dello spot trasmesso in tv) a Peppino Impastato, ucciso dalla mafia a Cinisi il 9 maggio del 1978. In questo caso il tentativo è opposto. Non si fa la corte al sentire mafioso ma si utilizza una frase di un antimafioso vero come Impastato. La cosa può essere valutata sotto diversi aspetti. I familiari di Peppino, il centro a lui intestato a Palermo, altre voci vicine all'antimafia militante, hanno espresso parole di forte critica verso l'accaduto. Che però, senza contrapporsi ad esse, può essere guardato anche da un altro punto di vista. Quello del grande pubblico, non infarinato in cose di mafia e antimafia, a cui lo slogan è principalmente diretto. È una cosa negativa che milioni di persone abbiano potuto ascoltare l'inno alla bellezza di Impastato, che altrimenti sarebbe rimasto conosciuto ai pochi che hanno approfondito la sua vita? Ciascuno può dire la sua. Tenendo conto della considerazione che l'arte pubblicitaria è un prodotto dell'ingegno umano, come può esserlo un film, un saggio, un romanzo, un racconto, un fumetto, un documentario, un videogioco. Prodotti, anche questi, che vengono realizzati per essere venduti. Si esprime nelle sue proprie forme, ossia cercando di convincere gli acquirenti della bontà di un prodotto, altrimenti non esisterebbe come genere. Va giudicata nelle sue singole manifestazioni. Così come ci esprimiamo criticamente nei confronti di un film, di uno sceneggiato televisivo o di una fiction. Non deve, quindi, essere ritenuta un'espressione artistica di serie b, solo perché cerca di piazzare sul mercato della merce. Da biasimare a prescindere se vuole intestarsi in maniera palese, senza sotterfugi, come in questo caso, l'operazione di utilizzo di un pensiero. Che era certo stato coniato con diverse finalità. Ma che può essere riproposto pure in contesti diversi, essendo ormai divenuto patrimonio dell' umanità. Così come le vite e le gesta di quanti hanno contribuito a rendere migliore questo mondo contrapponendosi alla signoria mafiosa. Basti pensare alla frase "E se ognuno fa qualcosa", di Don Puglisi, utilizzata ormai dappertutto. Ho guardato diverse volte lo spot sulla marca di occhiali in questione. Devo dire che, alla fine, potrebbe essere preferibile che passino certi messaggi, pur con tutte le cautele, i distinguo del caso e il massimo rispetto delle ragioni di coloro che si oppongono, che altre forme di sponsorizzazione in cui, passata la réclame, non rimane assolutamente nulla.