mercoledì 23 settembre 2015

L'antimafia del gambero

La Repubblica Palermo
22 9 2015 - Pag. I

Il gioco dell'oca chiamato antimafia

Francesco Palazzo

Sul fronte mafia-antimafia proviamo a ragionare intorno a cinque circostanze. Confindustria Sicilia dilaniata sul fronte antimafia, l’inchiesta sulla gestione dei beni confiscati (sulla quale è eclatante il silenzio della classe politica e della società civile), il processo per la strage di Via D’Amelio in cui si è toppato alla grande. Poi, la mafia che non permette, con ripetuti attentati l’apertura di un pub a Ballarò in locali confiscati, infine interi quartieri dediti allo spaccio di droga, l’ultima operazione alla Zisa, attività cui non può mancare il benestare di Cosa nostra e nella quale il ricambio di persone dedite allo spaccio avviene dopo ogni retata. Cinque quadri diversi tra loro, i primi tre che riguardano la classe dirigente di questa regione, i secondi riguardano le leve mafiose sul territorio, il popolo che si muove nell’interesse e per conto della criminalità organizzata o avendone preventivamente il consenso. Classe dirigente e mafia. Cominciamo da questa. I mafiosi, si sa, fanno il loro lavoro. Controllano il territorio, fanno affari, cercano e trovano rapporti con il mondo di fuori, sia esso politico, economico o sociale. Sono capaci di autorigenerarsi, di cambiare pelle, di mutare nomi e facce. Anche la microcriminalità a essi legata si muove con una certa coerenza. Sta sul territorio, crea enclave quasi inespugnabili, pratica, come dicevamo, un efficace turnover dopo ogni operazione di polizia. Sappiamo poco, al momento, della struttura apicale di Cosa nostra. Secondo la Direzione Investigativa Antimafia, attualmente coesistono un aspetto verticistico e una rigida compartimentazione di molte famiglie mafiose. Sopravvive, quindi, la dimensione verticale e contemporaneamente si registra lo sviluppo orizzontale, quindi parcellizzato, delle varie consorterie mafiose. Anche dal punto di vista del contrasto coesistono due aspetti che pare vadano ognuno per proprio conto. Da una parte la DIA sottolinea l’importanza, ai fini di una reazione che definisce immunitaria contro il potere mafioso, delle tante iniziative a favore della legalità. Dall’altra, rileva, che il legame mafia-corruzione è fortissimo. Sia quando si esplicita nella forma di vincolare le istituzioni e l’apparato burocratico, sia quando si estrinseca nell’inserimento presso il circuito economico sano. La saldatura tra mafia-politica-imprenditoria, rileva ancora la DIA (citiamo la relazione relativa al secondo semestre 2014), punta ad alterare le dinamiche della pubblica amministrazione in favore di un’elite di soggetti. Tra le principali voci attive si evidenzia il racket delle estorsioni. Per ricollegarci al nostro ragionamento e spostarci dalla mafia alla classe dirigente, Cosa nostra – scrive la DIA - è in grado di estendere i propri interessi verso qualsiasi distretto produttivo. Noi aggiungiamo una considerazione abbastanza nota, ossia che la perdita dei beni per un mafioso è ben più grave, perché ne intacca il vero potere, di un’eventuale e anche prolungata permanenza nelle patrie galere. Ecco perché, quando i beni passano allo Stato non è accettabile che il 90% di essi, qualora costituiscano attività imprenditoriali e commerciali, arrivino, nel giro di poco tempo, al fallimento.  Allora, tenuto conto che i mafiosi fanno quello che sanno fare da sempre, e lo fanno bene anche quando, come adesso, non sono proprio nelle migliori condizioni, è la classe dirigente, in ogni posizione dislocata -  imprenditoria sana, tribunali, palazzi di giustizia, società civile, università, chiese, mondo sanitario, istituzioni pubbliche, partiti, associazioni, professioni varie - che deve porre in essere comportamenti limpidi, procedure trasparenti e coerenze inattaccabili. Non applicando i quali la lotta alla mafia si trasforma in una specie di gioco dell’oca. Dove fai quattro passi in avanti e poi sei costretto a farne più di cinquanta indietro tornando all’inizio. Condivido, in tal senso, la parte finale dell’articolo di Enrico Del Mercato del 13 settembre. Chi si occupa di antimafia deve essere più puro di un bambino appena nato. E, se possibile, anche di più. 

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