mercoledì 20 dicembre 2017

Strisce blu a Palermo: pagare (più del dovuto) e non sorridere.

La Repubblica Palermo
19 dicembre 2017
L'ultima mezzo'ora di parcheggio*
Francesco Palazzo


A Palermo puoi fare lo stesso gesto centinaia di volte. All’ennesima volta ti soffermi. Parcheggio in Via della Libertà sulle strisce blu. Pronto a pagare e avendo presente che prendi giustamente la multa se non lo fai dove obbligatorio ed è però spesso consentito sostare fuori dalle strisce nelle vie adiacenti. Erano le 18 e 49, così segnava il parchimetro, e comincio a mettere i miei spicci. Sino a quando arrivo, di pochi minuti, oltre l’orario, le 20, a partire dal quale le strisce blu diventano gratuite sino alle 8 del mattino. Attendo il biglietto ma ottengo nuovamente i soldi. Rifaccio l’operazione. Nulla da fare. La somma di un euro e 30 centesimi non va bene. Vado in auto, prendo gli occhiali e vedo che sono accettati oltre che almeno un euro come quota base solo multipli di un euro. In un’epoca in cui con l’elettronica si raggiungono precisioni spaventose, non puoi selezionare il tempo che ti serve. Se vai alle 19 e 30 ti viene impedito di pagare mezz’ora, cinquanta centesimi, devi mettere un euro e coprire anche i trenta minuti in cui non si paga più. Alla fine ho dovuto mettere due euro. In tal modo il tagliando, erano già le 18 e 50, mi segna le 8 e 50 del giorno successivo. Avrei potuto trascorrere la notte nel salotto di Palermo e poi concedermi, dalle 8, una colazione da quelle parti per utilizzare con criterio quei cinquanta minuti obbligatori. Siccome questa procedura viene applicata a tantissimi automobilisti di una metropoli, le somme in più incassate dal comune e non dovute dai cittadini non saranno irrilevanti. Parliamo di una zona gestita direttamente dall’amministrazione comunale e non dal privato APCOA. Che obbliga comunque, nelle vie di propria competenza, a inserire almeno un euro, ma per le ore successive ti consente di incrementare l’orario di sosta per ogni dieci centesimi immessi. Utilizzando un sistema più elastico e vicino alle esigenze di chi parcheggia. Il comune potrebbe nei suoi parchimetri prevedere l’inserimento dei 10 centesimi oltre la prima ora. E, nella stessa prima ora, convertendo a questa pratica anche il privato, dovrebbe consentire l’immissione di monete inferiori a un euro come minimo. Cosicché chi ha bisogno di sostare per un massimo di mezz’ora possa farlo in piena libertà non pagando più del necessario. Stesso discorso per tutte le strisce blu comunali sparse per la città e amministrate attraverso i gratta e parcheggia. I quali, avendo anch’essi il costo unitario di un euro, non consentono, come i parchimetri di via Libertà e dintorni, alcuna discrezionalità nel pagamento del tempo di sosta che serve. Andrebbero, dunque, dappertutto posizionati parchimetri “intelligenti”. Si ridurrebbe la forbice tra chi parcheggia dove è proibito fuori dalle strisce blu, molto spesso non venendo sanzionato, e coloro che vogliono rispettare le regole e che per questo non possono però pagare più del dovuto. 
*La parte in neretto non è stata pubblicata per motivi di spazio.

domenica 17 dicembre 2017

Palermo capitale dei giovani 2017. Qualcuno se n'è accorto?



La Repubblica Palermo - Pag. I

LA CAPITALE DEI GIOVANI DIMENTICATI

Francesco Palazzo

Nel 2018 Palermo capitale della cultura si annuncia come un'apoteosi. C'è qualche difficoltà per il concerto di capodanno, giusto il biglietto da visita all'anno delle mirabilie, come scriveva Claudio Reale su queste colonne. Ma è appena un dettaglio. Compagni che sbagliano. I prossimi 365 giorni comunque li vedremo. Per farci un'idea potremmo però chiederci, doti divinatorie non ne abbiamo, ma del passato qualcosa si può dire, com'è stato il 2017, Palermo capitale dei giovani. Ne avete sentito parlare? Ne hanno saputo qualcosa i giovani della città? Magari quelli che vivono nelle periferie con pochi servizi. Oppure coloro che sono andati via a gambe levate e manco ci pensano a tornare. Ma almeno le nuove leve dei quartieri residenziali, si portano a casa qualcosa da questo riconoscimento? E la città? Cosa rimane alla nostra comunità di questa medaglia appesa al petto all'inizio dell'anno che finisce? Ecco, non sappiamo come sarà Palermo capitale della cultura. Ma per fare bene, o meno male, basterà guardare cosa fatto nel 2017 con Palermo capitale dei giovani. E non ripeterlo.

sabato 9 dicembre 2017

La triste storia del pontile che non appartenne a nessuno tranne che ai vandali.


La Repubblica Palermo - 8 Dicembre 2017

COSTA SUD IL PECCATO DI DISFARE

Francesco Palazzo


Va bene, ci sarà stato il rimpallo di competenze e di prerogative. Vada prima lei. No, s'immagini, non mi permetterei mai. Sarà stata più o meno questa la controdanza che ha portato al mancato collaudo, alla non gestione, all'incuria, alla pericolosità e in ultimo all'incendio che pare abbia fatto calare il "the end" sul bel pontile in legno, fatto di un'ampia piazzola e di una passeggiata sulla spiaggia sino al mare, realizzato in piena costa sud. Sì, quel bello e lungo tratto di mare che un tempo, con tutto il rispetto, faceva un baffo a Mondello. E qualcuno dice che lo farebbe pure adesso, visto che quelle acque sarebbero tornate a essere balneabili. Comunque, nel frattempo, il nostro bel pontile è andato a farsi benedire. Ed è proprio il caso di dirlo. Visto che sorge dalle parti dell'ospedale Buccheri La Ferla, proprio di fronte, guarda un po' le coincidenze, alla chiesa che ci ha tenuto occupati per mesi con il cosiddetto "scisma di Romagnolo". Ma dove stia il vero peccato, guardando la chiesa ancora intatta e il pontile ormai distrutto, sta ai palermitani dirlo.

venerdì 8 dicembre 2017

Mafia debole? Sino a un certo punto.

Repubblica Palermo - 6 dicembre 2017

Il rischio che la mafia ridiventi forte

Francesco Palazzo


Non è che forse stiamo facendo i conti troppo facilmente con questa mafia che sarebbe ormai disorientata e sguarnita? Una Cosa nostra, secondo quanto ci dicono taluni magistrati e storici, oramai retrocessa in serie B rispetto alla più potente e ricca mafia calabrese. Ammesso sia così, forse che non si possa risalire dalla serie cadetta e puntare nuovamente allo scudetto? Nel frattempo, noi facciamo solo analisi o ci muoviamo concretamente affinché la criminalità mafiosa vada ancora più giù nei gironi meno prestigiosi? Magari faremmo meglio a porci queste domande. Sì, è vero, li arrestano e li riarrestano. Ma la lotta alla mafia, a parte il fatto che i mafiosi pare trovino continuamente ricambi, può essere circoscritta al duello tra guardie e ladri mentre noi stiamo a guardare? Cosa vediamo, o dovremmo vedere, ce lo dicono le indagini. Va avanti, ad esempio, il pagamento quasi a tappeto del pizzo. Sì, c'è chi si ribella. Ma non dobbiamo avere virtù particolari per sapere che si tratta ancora, quasi nel 2018, dopo che la mafia ha attraversato tre secoli, di una sparuta minoranza. Del resto, ciascuno, ove già non pratichi direttamente la cosa versando l'obolo, nelle zone residenziali può vedere classe dirigente che paga il pizzo ai posteggiatori come se fosse la cosa più normale del mondo. Certo, siamo a 25 anni da Capaci e da Via D'Amelio, molto è cambiato. Ma possiamo limitarci a fare i notai della storia e della cronaca o dobbiamo chiederci se pratichiamo analisi e punti di vista obsoleti? Del resto, quella stagione stragista rimane un'anomalia circoscritta in una storia della mafia che è andata sempre a braccetto col potere e con la società. Possiamo tranquillamente ritenere che ci sia, mettiamoci d'accordo sull'entità, una presenza della mafia siciliana che tocca la grande finanza, le attività commerciali legali ma derivanti da soldi sporchi e i reati più tradizionali come lo spaccio di droga e il citato pizzo. Dobbiamo prendere atto che nei quartieri, sia periferici, dove non mi pare si respiri aria di liberazione, tutt'altro, sia centrali, dove il racket ha gioco facile, ci sia materiale per fare analisi meno trionfalistiche. E talvolta anche tradizionalmente fuorvianti. Si ha infatti l'impressione che sotto sotto si sposi la sensazione che mafia che non spara equivalga a mafia debole. Un già visto pericoloso. Peraltro, anche nell'associazionismo e nella politica si può registrare un generale abbassamento di attenzione. Che ha pure prodotto la crisi, con scandali al seguito, dell'antimafia. Insomma, probabilmente, nel dirci che i tempi sono cambiati, ed è vero ma solo in parte, ci siamo un po' distratti. E ce la raccontiamo come se ci trovassimo in un'altra epoca davvero, con una Sicilia libera e una criminalità organizzata morente e pronta per il funerale. Siamo sicuri sia così? Recentemente abbiamo discettato su chi sarà il nuovo capo dei capi. Quasi si trattasse di una fatale necessità. Come se la mafia fosse assimilabile al Monte Pellegrino o all'Etna, perpetuamente presenti alla nostra vista. Se ancora la mafia siciliana lotta e vive insieme a noi, ed è sopravvissuta a tutti i suoi capi, dobbiamo chiederci, guardando al passato e al presente di ciascuno, cosa non abbiamo fatto e non facciamo per farla sparire completamente dai giorni della nostra storia. Dobbiamo ammettere che ci sono, oggi, non trenta o cinquant'anni fa, segmenti non trascurabili di borghesia e ceti popolari, sui quali c'è in giro sull'argomento molto buonismo, che lucidamente ritengono la mafia un prezzo che è ancora possibile pagare. Dovremmo costruire democrazia, sicurezza, promozione, sviluppo, economia sana, vivibilità e tocca a tutti, nel quotidiano, farlo. La lotta alla mafia passa da queste stazioni. Altrimenti sarà sempre una partita che non giocheremo bene. O solo da spettatori. Che assistono, come se la cosa non li riguardi più di tanto perché ormai è finita, ma finita non è, all'eterna lotta tra magistrati e forze dell'ordine da un lato e criminali dall'altro.

domenica 26 novembre 2017

Le scuole, la religione, i ragazzi e la spiritualità.


Repubblica Palermo - 25 novembre 2017

MENO PREGHIERE PIÙ EDUCAZIONE ALLA SPIRITUALITÀ

Francesco Palazzo

Ragioniamo sul preside palermitano che ha tolto immagini sacre ed ha proibito le preghiere in classe. Le religioni sono aspetti importanti della vita, andrebbero fatte conoscere nelle scuole, evitando statue e preghierine, pratiche non consone al carattere laico dell'insegnamento. Già circa 25 mila docenti, pagati dallo Stato, insegnano religione cattolica. Questi, e ve ne sono tanti preparati, potrebbero rappresentare ai discenti le varie prospettive religiose, i modi con i quali esse si contaminano con la storia e la società. Anzi, si potrebbe pensare ad una disciplina che introduca alla spiritualità, sia laica che religiosa. Ne trarrebbero giovamento le giovani generazioni, che spesso si tengono lontane dall'ambito spirituale senza conoscerlo, rimanendo aride da questo punto di vista. Parliamo dunque non di vietare, ma di arricchire. Non un no a qualcosa ma un sì più ampio. Qualche ora di meditazione su temi esistenziali, tratti dalle diverse spiritualità, sottratta ai cellulari, renderebbe migliori i nostri scolari le nostre scuole e la società.


mercoledì 22 novembre 2017

Sicilia 2017: frecciarossa contro tartaruga. Rimaniamo speciali o diventiamo normali?

La Repubblica Palermo - 21 novembre 2017

SE PARLARE DEGLI IMPRESENTABILI DIVENTA UN ALIBI PER LA POLITICA

FRANCESCO PALAZZO

Una recentissima pubblicità, ben fatta, di Trenitalia, annuncia: «Addio videoconferenze ». Negli incontri di lavoro la presenza è più utile di qualsiasi intermediazione tecnologica. Lo spot continua in modo ancora più convincente. Un Frecciarossa in partenza ogni 15 minuti da Roma per Milano, 99 collegamenti al giorno tra le due città, con servizio di ristorazione. Da Palermo sembra di avvistare il mondo dei balocchi. In effetti, pare di vivere in un altro paese. Se a qualcuno prende la voglia, dopo aver pranzato a Roma, partendo alle 17 può tranquillamente cenare a Milano. Arriverà alle 19 e 59, dopo 2 ore e 59 minuti di velocissimo viaggio. Parliamo di 574 chilometri. Se invece vi venisse l'idea di andare da Ragusa a Trapani, 360 chilometri, pensateci bene. Il sito di Trenitalia propone questo percorso. Partenza alle 8 e 07 arrivo alle 18 e 25, dopo 10 ore e 18 minuti, con 3 cambi e quattro ore di pullman da Palermo a Castelvetrano. È solo un esempio, ovviamente, per capire il contesto nel quale ci muoviamo. Che comprende pure la circostanza che ancora preferiamo utilizzare imbarcaderi per percorrere tre chilometri di mare tra la Sicilia e la Calabria. E se vogliamo, perché mai dobbiamo smettere di paragonarci con gli altri, possiamo aggiungere che il 15 novembre a Bologna è stato inaugurato FICO, Fabbrica Italiana Contadina, il più grande parco agroalimentare del mondo, centomila metri quadri. Che vede partecipare, ed è un settore nel quale dovremmo eccellere, una sola azienda siciliana, la pasticceria Palazzolo di Cinisi. Nei giorni di lancio del parco Trenitalia ha applicato il 30 per cento di sconto.Rilevato questo quadro, si ha l'impressione che il tema degli impresentabili, certamente importante ma che si muove nell'ambito del prepolitico, abbia finito per coprire del tutto le azioni politiche da mettere in campo per la Sicilia che i diversi schieramenti proponevano in campagna elettorale. E vediamo che la cosa procede anche dopo il voto. Anche da Roma a Milano non mancano certo gli impresentabili, anzi ve ne saranno magari di più. E pure da Roma a Salerno, dove si ferma l'alta velocità e l'elevata frequenza dei collegamenti. A parte il fatto che anche sugli impresentabili le contumelie che si lanciano addosso le forze politiche siciliane non tengono conto del fatto che indagato non vuol dire affatto colpevole. Chissà quando finiremo di essere speciali e diventeremo noiosamente normali. Mi sa che talvolta si nasconda la difficoltà politica di mettere in atto azioni in grado di far risalire la china all'isola parlando d'altro. Ripeto, tema non secondario quello della qualità delle liste elettorali e del personale politico dei partiti. Ma non deve oscurare le politiche proposte e realizzate concretamente. Non può sfuggirci che in questo ragionamento, classe dirigente, corpi intermedi, come si diceva una volta, e popolo di questa regione devono riuscire a guardarsi allo specchio e capire cosa vogliono fare da grandi. Il tema della politica, che non significa soltanto partiti e istituzioni, per noi siciliani è sempre questo. Se riusciremo ad essere, prima o poi, all'altezza della sfida dipenderà solo ed esclusivamente da noi. Allora, più che cercare di capire chi sarà il prossimo capo dei capi, come se ci trovassimo spettatori in uno stadio e la mafia fosse un fatto eterno, mettiamo in campo fatti virtuosi, al di là della retorica, affinché la malapianta della mafia, che abbiamo nutrito nell'arco di tre secoli, inaridisca veramente.

venerdì 10 novembre 2017

Cosa esce dalle urne del laboratorio Sicilia.

La Repubblica Palermo - 9 novembre 2017

Il capolavoro di autodistruzione realizzato dal centrosinistra siciliano

FRANCESCO PALAZZO

Ci sono diverse questioni che la tornata elettorale regionale solleva. Cominciamo dal centrosinistra. Si dice che unito non sarebbe stato comunque competitivo. Però, guardando i numeri, vediamo che i Cinque Stelle, non arrivando al 27 per cento come voto di lista, rispetto al 33 abbondante delle ultime politiche, sono stati della partita con il candidato alla presidenza. Non capiamo perché mai le liste del centrosinistra, totalizzanti quasi il 31 per cento, rispetto al 21,4 delle politiche, non avrebbero dovuto fare altrettanto. È vero che il centrosinistra, che come liste cinque anni fa alle regionali aveva il 37 per cento, perde sei punti per strada. Andati anche ai grillini. Che non sono riusciti a entusiasmare. Se ti presenti come forza anti sistema e non scaldi i motori della partecipazione vuol dire che ti muovi nello stesso stagno degli altri. E ciò al di là delle percentuali pentastellate, che però durano da Natale a Santo Stefano. Soprattutto se non governerai nulla per un'intera legislatura e con una coalizione vincente maggioritaria all'Ars. Per restare nel campo del centrosinistra, andato allegramente diviso alle urne, va detto che i due candidati a Palazzo d'Orleans prendono circa la stessa cifra che si aggiudicò nel 2001 il candidato sindaco a Palermo. Sembrò quello il punto più basso, si pensava insuperabile, in termini di raccolta del consenso. Non era così. Siccome quello era il periodo del 61 a 0, possiamo dire che rispetto a quel cappotto oggi il centrosinistra va ancora indietro. Ed in effetti è anche peggio, perché allora non c'era il terzo incomodo del polo grillino. Nel corso di un dibattito ospitato su questo giornale abbiamo scritto tanto, su input di Enrico del Mercato, sull'irrilevanza in questa terra del centrosinistra. Bene, mi pare che questo passaggio elettorale ci consegni un quadro ancora più fosco. Va rilevato che lo schieramento a sinistra del Pd, che voleva contarsi in Sicilia in vista delle politiche del 2018, esce malamente dalle urne. Rispetto alle regionali del 2012 non migliora il risultato e riesce a mandare un solo deputato all'Ars. Tanto rumore per nulla. Se si voleva minare a livello nazionale la figura di Renzi e mettere all'angolo il Pd, entrambe le mosse non sono riuscite. Anche chi all'interno dei democratici si oppone a Renzi capirà presto che senza la sua presenza il Pd non è competitivo, e i democratici stessi si sono confermati, pure in Sicilia, dove devono trovare dirigenti più rappresentativi e carismatici, la maggiore e insostituibile forza di qualsiasi schieramento di centrosinistra, vincente o perdente che sia. Dobbiamo notare un altro aspetto. La cosiddetta società civile è stata del tutto assente dal dibattito politico di queste regionali. Che hanno avuto un epicentro partitico. Quando penso ad altri momenti in cui ha brillato di luce propria, mi riferisco ad esempio alla candidatura nel 2006 della Borsellino, che raggiunse, pur perdendo, il 41,64, più del presidente eletto adesso. La Sicilia si conferma di centrodestra, che si riprende il suo. Da questo punto di vista chi riteneva, nelle fila dei democratici, di avere qualche anno fa portato scompiglio dentro il suo fortino sino a scioglierlo come neve al sole, deve fare una severa autocritica. Il centrodestra si è presentato a questo giro come chi non aveva mai avuto le leve del potere, mentre il centrosinistra, avendo governato per una sola legislatura, è riuscito a farsi percepire come il responsabile di tutto. Davvero un capolavoro.

domenica 5 novembre 2017

Il voto come esercizio civico di democrazia.

La leggenda della società civile con quattro quarti di nobiltà che diserta la democrazia.

Francesco Palazzo

Nel corso delle campagne elettorali si parla molto dei candidati, poco degli elettori, che contano solo come materiale di sondaggi. A urne chiuse il corpo elettorale scompare per essere ripescato nella successiva tornata ai seggi. Quando ci riferiamo ad esso spendiamo parole buoniste per sottolinearne la disaffezione verso la politica che ha come conseguenza diretta la non partecipazione al voto. Cosa che si annuncia anche per oggi, in cui potrebbero deporre la scheda meno della metà degli aventi diritto. Come nel 2012. Non è un dato che ci vede isolati. Nelle regionali del 2015, dove votarono Campania, Liguria, Marche, Puglia, Toscana, Umbria e Veneto, la media dei votanti è stata poco sopra il 52 per cento. Con la Toscana, ed è quanto dire, che si è attestata sulla soglia più bassa con il 48,28. Generalmente giustifichiamo tale fuga con il disamore che altri provocano nei cittadini, scagionando questi ultimi da qualsiasi responsabilità. Che invece hanno. A meno che non si voglia condividere il seguente schema. Da una parte i cattivi della politica, dall’altra i buoni della società civile, che si vendicano in massa non timbrando il certificato elettorale. La mafia, distribuita tra notabili e popolo, punterà trasversalmente su più candidati e più liste. Farà quello che sa fare e che ha sempre fatto. Non so quanto sposta in termini di consenso. Ma dovrebbe fare più paura il disinteresse di coloro, che rappresentano un numero molto più consistente, non c’è paragone, che se ne staranno a casa senza neppure pensarci. Parliamo di adulti, non di bambini che devono essere condotti per mano. Ormai un vero e proprio blocco sociale. Il cui silenzio in un momento fondamentale dovrebbe essere redarguito e non accolto con benevolenza. Soprattutto in una regione con mille problemi come la nostra. Ma non c’è soltanto la latitanza di uno spaccato enorme della “buona” società civile, termine quanto mai errato, come se tutto il resto fosse incivile. Chi non vota, spesso si disinteressa di quanto scorre nella vita pubblica. Va aggiunto, a prescindere dall’esercizio o meno del voto, che lo spaccato di mondo che non vive direttamente nella cittadella della politica partitica e istituzionale, non è che presenti, mediamente, comportamenti più virtuosi di chi lo amministra. Per completare il ragionamento dobbiamo pure dire della qualità del voto che si attribuisce. Se scattano atteggiamenti e comportamenti familistici o di clan o se si premiano quelli che si ritengono i migliori. In queste settimane ci siamo interrogati, giustamente, sull’impresentabilità dei candidati. Ma quant'è presentabile un elettore che non si presenta al seggio, non controlla chi amministra, che mette in atto comportamenti sistematici di etica pubblica molto discutibili e che si fa guidare da motivazioni che non guardano al bene collettivo nel momento di esprimere il proprio consenso? Sembra banale dirlo, ma è la verità. Soltanto ottimi elettori e cittadini possono generare buona politica, istituzioni funzionanti e fondi pubblici spesi bene. Ogni azione politica che non ha questa base di partenza rischia di essere di poco momento, qualsiasi sia il risultato elettorale. La Sicilia la potranno migliorare soltanto i siciliani. Tutti, però, non soltanto una parte. Altrimenti andremo sempre più giù.

domenica 29 ottobre 2017

La strana storia del centrosinistra siciliano che si crede toscano.

Repubblica Palermo - Pag. I
28 ottobre 2017
La sinistra che gioca a perdere non fa gli interessi dei più deboli
Francesco Palazzo


Ha ragione Enrico del Mercato nell’editoriale del 24 ottobre. Gli unici cui interessano i voti del centrosinistra sono il centrodestra e i grillini. Quelli che dovrebbero cercarli pensano ad altro, divisi in due puntando al terzo posto del podio.

Certo, in politica può succedere di tutto. Difficilmente si assiste però ai miracoli. Perché, capite, prima ancora delle questioni politico-elettorali c’è la matematica. Nel 2012 il centrosinistra vinse con un candidato alla presidenza molto conosciuto e che portava un suo cospicuo consenso personale, il centrodestra era diviso, i grillini avevano almeno dieci punti in meno di quanti ne prenderanno ora, la sinistra, rispetto a cinque anni fa, presenta un candidato alla presidenza che attirerà molti consensi. Il PD e company, la sinistra e frange di essa si preparano a confermare l’irrilevanza nel sistema politico siciliano di cui scrive del Mercato. E, visto che parliamo da settimane di impresentabili per altre ragioni, dovremmo pur dire che non è molto presentabile al proprio elettorato di riferimento un raggruppamento che si appresta a non contare nulla nel governo della cosa pubblica siciliana, per i prossimi cinque o forse dieci anni.

Ma che senso ha dividere in Sicilia la ricerca dell’alternativa rivoluzionaria, il santo graal di tutte le rivoluzioni perse, dal riformismo? Si dice che non ci si può limitare a gestire l’esistente. Ma se la politica non gestisce l’esistente, di cosa dovrebbe occuparsi, del fantascientifico, del surreale, dell’immaginario? Del resto, questo riformismo siciliano, i cui risultati sono ben lungi dall’essere appena sufficienti, non riesce mai a brillare di luce propria. Cercando di nascondersi, a Palazzo delle Aquile come a Palazzo D’Orleans, dietro soluzioni e situazioni non direttamente determinate, scelte in zona Cesarini e con le spalle al muro. È difficile sapere se e chi ha ucciso la sinistra in Sicilia o quanto pesi. Certamente, lo stato di salute attuale è gravemente pregiudicato.

E ciò è aggravato dal fatto che il tutto ha risposto a logiche romane. Altro che Sicilia come laboratorio. Qui è in azione una fotocopiatrice. Anche nel centrodestra la grande famiglia riunitasi risponde direttamente a schemi nazionali. Ma almeno lo fa stavolta per sommarsi e non per spararsi sui piedi come stanno facendo il PD e lo schieramento, sedicente, a sinistra. Chi gioca a perdere, dicendosi di centrosinistra, non lavora certo per la povera gente, per gli indifesi, per i giovani che vanno via e non tornano più, neppure per votare. Uno potrebbe obiettare che pure in altre regioni il centrosinistra si divide.

Per esempio in Toscana alle regionali del 2015. Forse qualcuno pensa di vivere in Toscana. Dove la sinistra è andata per i fatti suoi e il PD ha vinto lo stesso. Solo che lì da solo ha più del 46 per cento, il presidente eletto prende il 48 e la sinistra arriva al 6 senza problemi. Qui se il PD e ciò che sta alla sua sinistra arrivano al 25 è festa grande. Si potrà pure affermare che la sinistra siciliana, pur perdente alle urne, ha dato molto alla società siciliana. E si possono ricordare cose di settant’anni fa. Che non interessano minimamente la Sicilia odierna.

Infine, questo stato di cose ci permette di fare un’ultima riflessione. Nella storia politica di questa regione ci si è trascinati la considerazione storica della democrazia bloccata, ossia il fatto che la sinistra non potesse andare al governo per decisioni prese altrove. Quello che sta succedendo nel centrosinistra in questa campagna elettorale è la prova provata che questo tipo di approccio è stato un alibi per un centrosinistra che, sin fino al 2017, nel momento in cui abbiamo davanti una democrazia sin troppo liquida, non ha la forza, la lungimiranza, la responsabilità di guardare non il proprio ombelico ma la situazione di questa regione. E la cosa che ancor più lascia basiti è che l’elettorato più politicizzato anche stavolta si è posizionato, da una parte e dall’altra, a difendere questo spappolamento. Che, a dirla tutta, assomiglia a un vero e proprio analfabetismo politico.

(Sotto il primo link, dal sito di Repubblica, indirizza a tutto il dibattito in corso, il secondo al mio articolo). 


mercoledì 20 settembre 2017

Brancaccio e don Puglisi. Una storia e un quartiere da conoscere evitando leggende metropolitane, imprecisioni e luoghi comuni.

La Repubblica Palermo
20 settembre 2017*

La retorica su Don Puglisi

Francesco Palazzo

L’antimafia dei riti e quella della concretezza, quella dei cambiamenti veri e l’altra a portata di telecamera, quella illuminata per l’occasione e quell’altra feriale che non conosce luce. Voi vi chiederete, a proposito di luce, come erano a ventiquattro anni dalla sua scomparsa le strade dove Don Pino Puglisi esercitò il suo mandato di presbitero sino a trovare una pistola che puntava alla sua nuca il 15 settembre 1993. Cioè le vie adiacenti la chiesa di San Gaetano, quelle vicine la statua bianca del santo. Le cui dita spezzate, mi è stato detto recentemente, sarebbero state rotte, ovviamente è solo una leggenda metropolitana, perché indicavano la casa dei boss. Ci vuole poco, del resto, a inventarsi, immaginarsi, storie. Lo stesso cardinale che ha presieduto la veglia in ricordo di Don Puglisi la sera del 15 a Piazzale Anita Garibaldi, presidente della CEI, la conferenza episcopale italiana, non l’ultimo arrivato, ha esordito chiedendo agli intervenuti e allo stesso arcivescovo, asciutti di risposte, se per caso Brancaccio non provenisse dalla parola branco. Capito che non era così ha affermato che comunque da branco, dopo Puglisi, quella che aveva davanti era diventata una comunità. Bastava interrogare per pochi secondi wikipedia per sapere che il quartiere prende il nome dal governatore di Monreale, il napoletano Antonio Brancaccio, che nel 1747 fece erigere la chiesa oggi conosciuta come San Gaetano. Ma tutto deve tenersi nell’immaginario collettivo. Del resto, cosa può pensare uno che viene catapultato sul luogo dove Puglisi trovò la morte per mano mafiosa se le testimonianze offerte durante la veglia non sono quelle dei tanti giovani laureati del quartiere, dei professionisti, medici, ingegneri, musicisti, professori, anche universitari, dei tanti onesti lavoratori originari del rione e tuttora residenti o di un gruppo artistico che produce musical e che si è esibito in tutta Italia, formato da 150 abitanti di Brancaccio. Lo schema che viene proiettato, a quasi 25 anni da quel colpo alla nuca che fece fuori un grande prete, ma altri ve n’erano stati prima, ad esempio Rosario Giuè, ma questo non viene detto al presidente della CEI, è classico. Quello di gente senza futuro che ha bisogno della mano caritatevole del volontariato per rialzare pietosamente in qualche modo la testa. Quello di un quartiere dove don Pino levava i bambini e gli adolescenti dalla strada per portarli a scuola. Omettendo di dire che i ragazzi e le ragazze originari del quartiere che Puglisi trova al suo insediamento a Brancaccio, andavano regolarmente a scuola e tantissimi hanno conseguito lauree e diplomi, con un tasso probabilmente non dissimile a quello della parte residenziale della città. E che, invece, Don Pino i problemi li incontrò, oltre che con la mafia ovviamente, soprattutto con un’enclave di centinaia di famiglie indigenti che all’inizio degli anni ottanta vennero paracadutate nel quartiere da una politica miope. Ebbene, quel problema a Brancaccio è ancora presente e in questi ultimi decenni si è aggravato. Si è parlato molto dei tremila volumi che don Puglisi aveva, ma occorre anche dire che i giovani di Brancaccio gliene fecero trovare altrettanti nel salone della chiesa, sistemati a formare un’attiva biblioteca formalmente costituita che aveva il nome di Claudio Domino, il bambino ucciso dalla mafia a metà degli anni ottanta. Ma vi ho lasciato con una domanda senza risposta. Come erano le strade di don Puglisi la sera del 15 settembre? Erano al buio. Pesto. Al buio la Via Brancaccio, la Via Conte Federico, la Via S. Ciro, la Via Hazon, la Via Panzera, la Via Giafar. Strade che fanno da corona alla parrocchia dove 3P visse i suoi ultimi tre anni di vita e di sacerdozio. Magari un giorno sconfiggeremo la mafia. Ma lo faremo solo e soltanto se ci sapremo raccontare le storie nella giusta maniera e se sapremo curare bene questi territori. Altrimenti rischiamo di essere, per usare le parole del cardinale, un banco che brancola nel buio. E la stessa chiesa di Palermo, che ancora afferma che don Pino non era un prete antimafia, lo era eccome, e che ad oggi non ha mai messo in campo una pastorale specifica contro le cosche, rischia anch’essa di girare nel vuoto della retorica.

*versione integrale, due piccole parti segnate in grassetto sono saltate per motivi di spazio.

domenica 10 settembre 2017

Centrosinistra in Sicilia: marciare divisi per colpire se stessi.

La Repubblica Palermo 
8 settembre 2017

Il centrosinistra incomprensibile per il suo popolo
Francesco Palazzo
La domanda è semplice, temiamo che non ci sarà la risposta, ma la facciamo lo stesso. Ma nel centrosinistra ci pensano agli elettori quando si dividono come stanno facendo in Sicilia? Sia chiaro, i matrimoni si fanno in due. Da nessuna delle due parti, quella vicina al Pd e l’altra facente riferimento alla galassia che si fa chiamare sinistra, c’è stata la volontà vera, al di là delle parole, di andare all’altare. Constatiamo che certi ragionamenti interessano soltanto il ceto politico e quelli che vivono di politica. Una piccola minoranza. Per tutti gli altri, coincidenti con quasi tutto il corpo elettorale, tali circoli viziosi della politica non rappresentano nulla. L’altra mattina vedo un anziano e un giovane discutere di regionali. Passo loro accanto, visto che sto entrando in acqua e sostano sulla battigia, e mi fermo ad ascoltare. Non ne sanno molto. Mi chiedono delle forze in campo. C’è Grillo, poi c’è Berlusconi, sintetizzo. Sin qui chiaro, per loro. E per me. Nel momento in cui provo a spiegare il terzo maggiore attore in campo, leggo negli occhi dei miei interlocutori marini, che poi capisco essere vicini al centrosinistra, un palese disorientamento. Che, posso ipotizzare, si tradurrà in astensionismo o in voto comunque dato di malavoglia, senza coinvolgere più di tanto le persone vicine. Possiamo supporre, visto che parliamo di gente avvertita e navigata, che i protagonisti di questo mosaico infranto, abili come pochi a spaccare in quattro il capello della politica, sappiano di provocare questo stato di cose. Ma allora perché lo fanno? Per carità, le motivazioni le sappiamo. Le abbiamo lette quella fascia di persone che si abbevera giorno e notte alla rete e alla carta stampata. Ma le persone normali, cari Pd e formazioni che state più a sinistra, ammesso che queste configurazioni novecentesche abbiano ancora senso, pensate che vengano appresso alle alchimie, alle correnti, a quelli che non vogliono gli alfaniani, agli altri che chiedono discontinuità, a quelli ancora che a sinistra spaccano ulteriormente la mela?Non pensate che alle persone “normali“, i siciliani e le siciliane che vogliono votarvi e quelli che potrebbero farlo, con i mille problemi che hanno, gli rendereste la vita meno complessa se foste in grado di risolvere le vostre divisioni e fornire loro una possibilità di scelta semplice e comprensibile? Già con questa legge elettorale scelgono ben poco, visto che all’Ars sarà praticamente impossibile mandare una maggioranza al seguito del presidente vincente e considerato che la stessa norma elettorale rende facoltativo presentare prima del voto le squadre di governo. Ricordate l’Italicum? Dava agli elettori la possibilità di scegliere. Ma siccome l’obiettivo costante è quello di far permanere il corpo elettorale in una condizione di minorità, ecco che si forniscono strumenti che fanno contare chi deposita la scheda nell’urna quanto il due di coppe quando la briscola è a denari. In aggiunta a questo, il centrosinistra isolano, che ha appena eletto, unito, il sindaco della quinta città d’Italia, dopo qualche giorno inizia a complicarsi inutilmente la vita. Complicandola agli elettori. Sia chiaro, cari centri e sinistri, i vostri elettori non si aspettano nulla. Sanno che procederete divisi sino alla fine, andando magari a perdere malamente. I padri e le madri di famiglia, che vivono quotidianamente la concretezza, sanno che divisi si perde. Se potessero, quindi, vorrebbero magari dirvi, e forse lo faranno alle urne, che questa è strada che non spunta.

sabato 2 settembre 2017

Il centrosinistra siciliano, ovvero, quando si può sbagliare tutto perché non farlo?

La Repubblica Palermo
31 agosto 2017
Pag. I
E se i gazebo fossero una chance per il centrosinistra? 
Francesco Palazzo

Al punto in cui si è, le primarie sarebbero l’unica via d’uscita dal pantano in cui si è cacciato il centrosinistra dopo la vicenda della candidatura proposta al presidente del Senato. Che poteva essere gestita, dai proponenti, molto meglio. Se metti in campo un’idea del genere, prima devi assicurarti che ci sia il sì. Altrimenti si prende subito una via difficilmente percorribile. Quale è quella che il centrosinistra infatti si trova davanti. Ma ormai è una fase passata. C’è chi potrebbe dire che non c’è più il tempo per i gazebo. Non so se è così. E comunque, invece di spendere il tempo a dividersi, si potrebbe più utilmente impiegare per un appuntamento unitario. Le elezioni sono il 5 novembre e le liste devono essere presentate il 6 ottobre. Le primarie si possono benissimo celebrare il 24 settembre, ma anche la prima domenica di ottobre, giorno 1. Questa soluzione porterebbe diversi vantaggi. Il presidente della Regione sarebbe, come ha detto più volte, sino a ieri, della partita. Del resto, non si capisce perché il primo presidente di centrosinistra eletto dal corpo elettorale, è bene ricordarlo a chi se lo fosse dimenticato, e non per manovre di palazzo, non debba passare almeno dalle primarie. Si aggiunga che le formazioni politiche a sinistra del PD, messe davanti ai gazebo, non potrebbero dire no a cuor leggero. In quanto, ma non solo per questo, le primarie renderebbero molto più marginale l’accordo con gli alfaniani, cosa a quanto pare invisa alla sinistra. Che però ha vinto a Palermo e governa a Roma con Alfano. Misteri, non della fede ma della politica. Inoltre, tutti i candidati, anche i meno noti, avrebbero la possibilità di farsi conoscere, insieme ai relativi programmi, in tutta la Sicilia. Insomma, invece di continuare con questa pratica francamente autolesionista, che nessuno capisce tranne i pochi addetti ai lavori, si parlerebbe alla Sicilia e della Sicilia, praticamente una vera campagna elettorale che comincerebbe subito. Le liste, se si condivide lo schema di coalizione che promuoverebbe le primarie, si potrebbero preparare nel frattempo comunque. Si attenderebbe soltanto, a un mese e mezzo dal voto, tanto mancherebbe al 24 settembre, o a un mese abbondante nel caso del 1° ottobre, colui che uscirebbe vincente dai gazebo per guidarle.È vero che qualcuno potrebbe storcere il muso sulle primarie. Ma è anche lampante che se quelli che sono alla sinistra del Pd andranno da soli, peraltro con una candidatura significativa come quella preannunciata di Claudio Fava, questa coalizione, con i grillini in campo da tempo e un centrodestra unito, si candida molto verosimilmente ad arrivare terza. Credo che veda bene chi afferma che non si sta lavorando al modello Palermo ma a quello delle elezioni romane. Perché non è difficile prevedere che il Pd e lo schieramento a esso legato, in queste condizioni, potrebbero andare sotto di brutto come è già accaduto nella capitale.Insomma, i gazebo potrebbero essere l’unico modo per il centrosinistra per tornare al centro di questo passaggio politico siciliano. Che proietterà una lunga ombra sulle politiche. In tal modo, peraltro, la Sicilia, quel laboratorio di cui si parla esagerando non poco, tornerebbe ad essere non più, in questo frangente, a trazione romana, come giustamente sottolineava Pietro Perconti su queste pagine. Se davvero si vuole lavorare al modello Palermo, del quale magari si sopravvaluta leggermente la portata elettorale oltre i confini del capoluogo, questa probabilmente è l’unica chance per tenerlo in piedi e rafforzarlo.

lunedì 21 agosto 2017

Palermo e le isole pedonali. Non basta chiudere e poi stare a guardare l'effetto che fa.

La Repubblica Palermo
20 agosto 2017 - Pag. I
Dieci, cento, mille "isole", ma che siano attrezzate
Francesco Palazzo


Su certi versanti a Palermo c’è una sola strada, andare avanti. Bene, però. Non ci si può limitare a dire che quelli di prima avevano fatto peggio. Perché di questo passo arriviamo alle guerre puniche. Senza contare che certe decisioni potevano essere prese nel corso delle sindacature degli anni Novanta. Lasciamo il passato e parliamo del presente e del futuro. Circoscrivendo il ragionamento su un punto specifico, l’area pedonale centrale. E già chiamarla così è un’inesattezza. Visto che la parti alte di Via Maqueda e Corso Vittorio Emanuele non sono isole pedonali ma zone a traffico limitato. Era possibile in cinque anni, dal 2012 al 2017, trasformare queste due mezze vie in zone pedonali a tutti gli effetti? Ovviamente sì. Al di là di questo va detto che le due mezze strade cosiddette pedonali hanno, per usare una frase che i professori dicono ai genitori degli alunni che arrivano appena alla sufficienza, ampi margini di miglioramento e di ampliamento. Questo giornale ha inaugurato una campagna su Via Maqueda. Partendo da un’evidenza solare. La cosa non va. La sera della vigilia di Ferragosto ero con un amico in Via Maqueda e notavo, per l’ennesima volta, un contesto che non si può definire decente. Le luci, l’asfalto, le bancarelle, gente che mangiucchiava dappertutto, resti di affissioni penzolanti. E poi un frigo. Sì, proprio un frigorifero da appartamento, con delle lattine e bottigliette sopra che evidenziavano la merce in vendita e un’intera famiglia comodamente seduta dietro a presidiare il business. Bisognava fare una foto ma sono rimasto interdetto. E poi devo dire che in mezzo alle bancarelle il frigo anni settanta era quasi al posto giusto. Ora, a parte l’ironia, e tenuto conto che solo passi in avanti si possono fare, che futuro c’è da aspettarsi per l’isola pedonale centrale? Lo chiediamo partendo da una considerazione. Ricordiamo, vagamente, visto che i programmi elettorali scompaiono presto e non trovano cittadinanza nei siti istituzionali, che durante la campagna elettorale del 2012 si puntava ad un’area pedonale centrale molto più ampia di quella successivamente realizzata. Poi si è trovato un ripiego e ci può stare, la politica si svolge lungo la dimensione del possibile. Ma per i pezzi di Via Maqueda e di Corso Vittorio dedicati al “passìo” si poteva senz’altro fare meglio. Durante l’ultima edizione de “La via dei librai” i commercianti storici del Cassaro Alto hanno lanciato un allarme, inascoltato. Va bene la pedonalizzazione, dicevano durante un incontro svoltosi sul piano della cattedrale, ma non lasciateci soli perché così affoghiamo. Cinque anni non sono stati pochi. E non sono neppure un soffio i primi cento giorni, che volgono al termine, della nuova legislatura. Cioè il periodo che generalmente serve a dare l’identikit agli anni a venire. Invece, almeno per quanto riguarda l’argomento che ci intrattiene, ma anche su altro, non ci pare di avere ascoltato cose indimenticabili. Ma il tempo c’è, dunque armiamoci di pazienza. Sperando che davvero si vada speditamente a migliorare, il lavoro da fare è tanto, ciò che già si è messo in campo tra i due spezzoni delle vie citate. Provando anche ad allargare il perimetro, come auspicato in queste pagine dall’ex assessore alla mobilità, la cui mancata riconferma non abbiamo capito, Giusto Catania. Estensione già nei piani dell’amministrazione. Ossia l’interessamento del cosiddetto Cassaro Basso e della parte di Via Maqueda dai Quattro Canti alla stazione. Ovviamente, bisogna non limitarsi a chiudere, gesto lodevole ma come vediamo largamente insufficiente, ma occorre valorizzare in tanti modi ciò che si vieta alle auto. Affinché tali provvedimenti non siano medaglie che le singole amministrazioni mettono al petto, ma volani di bellezza e sviluppo per tutta la città. E, visto che ci siamo, proviamo ad allargarci un attimo. Perché non mettere in cantiere anche le chiusure di Via Ruggero Settimo e della parte di Via Roma interessata dalla ZTL? Restiamo in attesa. Non sonnecchiosa, ma vigile.

mercoledì 16 agosto 2017

I siciliani e la coperta di Linus dell'autonomia.

La Repubblica Palermo 

15 agosto 2017


E SE IL PROBLEMA DELLA SICILIA FOSSERO I SICILIANI E NON L'AUTONOMIA?

FRANCESCO PALAZZO 

Quando si parla di autonomismo, l'argomento più visitato nella storia siciliana degli ultimi sette decenni, soprattutto a ridosso delle elezioni, si prendono di mira la politica partitica e il suo modo di rappresentarsi nelle istituzioni. Ho però sempre più l'impressione che la questione sia più complessa e ci coinvolga come siciliani più di quanto crediamo. Forse è arrivato il momento di interrogarci sui nostri comportamenti nella sfera pubblica (perché la politica la facciamo tutti) e privata (che informa di sé anche la vita politica). E ciò a prescindere dalla questione autonomistica. Perché, se l'autonomismo è stato intravisto come la medicina adeguata per noi, non è scritto da nessuna parte che lo statuto ordinario ci avrebbe reso diversi. Ciò è dimostrato dal fatto che non solo le regioni a statuto autonomistico, ma anche quelle a regime ordinario si muovono lungo scale economiche, culturali e sociali non legate alla specialità o alla normalità. Allora, verosimilmente, il problema non è cambiare il farmaco, lo statuto autonomistico, assumendone un altro, diventando una regione a statuto ordinario. Ma iniziare a comprendere come siamo noi, a prescindere da cosa c'è scritto nella carta d'identità istituzionale, in quanto abitanti di questo triangolo posizionato al centro del Mediterraneo. In una società tutte le componenti si condizionano a vicenda contribuendo a scrivere la storia e la cronaca. Viviamo in una democrazia e quella che banalmente si chiama politica non è appannaggio di un gruppo ristretto di sacerdoti. È minimamente pensabile che il comparto produttivo, quello professionale, le università, il terzo settore, l'associazionismo, le famiglie, i singoli e via elencando, non abbiano nulla a che fare con il mondo che li circonda? Sarebbe oltremodo ipocrita, a meno di non voler ripetere sino allo sfinimento la filastrocca della società civile migliore di quella politica, continuare ad indicare il dito e non investirsi direttamente della responsabilità dello stato in cui si trova questa terra, sia che vediamo il bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno.Guardiamoci un attimo dentro. E cerchiamo di capire se il problema è stato davvero l'autonomismo e la sua applicazione nelle stanze dei partiti e nei palazzi del potere. Se dovessimo convincerci ancora di questo, autoassolvendoci, potremmo proseguire nel ritenerci, come società civile, che comunque fa politica pure col silenzio, del tutto estranei a questa storia e andare avanti con il nostro modo di essere cittadini di questa isola senza mutare nulla di ciò che siamo. A quel punto il duecentesimo dibattito sull'autonomismo, invece che la classica risata, potrebbe seppellirci e neppure ce ne accorgeremmo. Se, invece, qualche domanda sul nostro modo d'essere dovesse inquietarci, è probabile che ancora possiamo mettere a tavola un futuro migliore per noi e per le generazioni nuove. Perché la domanda non è come sta l'autonomismo, ma come sta la Sicilia. Ed è un quesito intorno al quale solo chi non ha peccato può permettersi di scagliare la prima pietra. Per restare alla cronaca politica, in vista delle regionali i partiti stanno facendo quel che possono e sanno. Ma possibile che da tutto il resto della società siciliana nulla arrivi in termini di analisi, strategie, proposte, programmi e nomi? A volte si ha l'impressione che la coperta autonomistica, per diversi milioni di siciliani, sia un alibi per giustificare l'immobilismo dal quale non riescono a smuoversi. Una moltitudine sterminata di persone la quale, più che impegnarsi in cittadinanze attive e consapevoli, sta con la testa sotto la sabbia. Preferendo additare, ogni tanto che sonnecchiando la alza su, sai che originalità e coraggio, la "politica", senza guardarsi allo specchio.

domenica 6 agosto 2017

Viva Bologna e Santa Rosalia

La Repubblica Palermo

5 agosto 2017

LA NORMALITÀ CHE SERVIREBBE A PALERMO PER NON FAR FUGGIRE I GIOVANI

FRANCESCO PALAZZO

Da fuori guardiamo dalla giusta distanza. Una cosa del genere, riferendosi al Monte Pellegrino, luogo altro e alto da dove guardare la città con lucidità, l'ha detta don Lorefice nel giorno del ricordo di Rosalia. Essendo a Bologna nel periodo del Festino, ho capito che i bolognesi non saprebbero organizzarlo come noi. I festeggiamenti di ottobre per San Petronio saranno sobri. È il santo della ricostruzione della città nella ferialità, volendo anche quella che è la prima università italiana, sia storicamente che nelle classifiche attuali. Rosalia è la liberazione dalla peste, fatto eccezionale che non crea comunità, evita solo il peggio. Cos'è normalità? Un elenco noioso. Nel capoluogo emiliano i bus, ovunque, sono puntuali e frequenti. Online o in un bell'ufficio si può acquistare una card turistica per visitare musei, la città con un bus oppure con una guida, usufruire di sconti e tanto altro. La raccolta differenziata è al 45,7 per cento. Ottimamente conservato è l'esteso centro storico. Vedi bici dappertutto con un clima non esaltante. La movida non reca disturbo. Altrove si vivono risultati cento volte maggiori nella normalità. Noi ci autoincensiamo per qualche incerto passo in avanti che avremmo dovuto compiere da decenni. Abbiamo visitato i 26 ettari dei Giardini Margherita, quasi cinque volte il Giardino Inglese, un piccolo parco della Favorita. Del quale non sappiamo che farcene. Si nominerà il sovrintendente? A Bologna, con una media nazionale del 38 per cento, la perdita di acqua immessa nella rete è del 31 per cento, e sono polemiche, a Palermo se ne perde più del 50 per cento. Bologna è davvero un polo attrattivo per i giovani. Eravamo lì per favorire l'inserimento di due ragazzi che vanno via da Palermo per la specializzazione post-triennio, intenzionati a restare dove sarà più facile trovare lavoro. Noi, capitale 2017 dei giovani, ne perdiamo a fiumi, sottrazione di futuro e nuova peste secondo l'arcivescovo Corrado nel messaggio alla città del 15 luglio. L'altro giorno ero all'università di Palermo per una laurea triennale in Ingegneria. Si discutevano diciotto tesi. Guardavo i ragazzi, la loro freschezza intellettuale, le enormi potenzialità. Il loro domani sarà un aereo. Scappano, con iPad e comode valigie dove mettere tutto il presente incerto e portarlo dove esso può agganciare l'occupazione e il merito. Depositano altrove le risorse economiche che ci sono volute per formarli. Non sono scelte fatte in libertà. Basta leggere un frammento della lettera che la trentenne endocrinologa palermitana Valentina Bullara ha scritto a Palermo il 24 luglio. «Non sarei mai voluta andare via e, anche se mi dici che le mie sono solo parole retoriche e che le mie lacrime sono solo di circostanza, è proprio così. Non avrei voluto lasciarti, mai». Verranno qualche mese in estate. Il mare, il sole, la passeggiata in qualche portentosa isola pedonale. Mentre fai queste considerazioni, in lontananza, quasi come un rumore di fondo, realizzi che tra poche settimane si voterà per le regionali. Ma non dobbiamo preoccuparci più di tanto. Quelle diciotto giovani leve, e tantissimi altri ventenni, neppure voteranno il 5 novembre. Saranno già impegnati a studiare nelle aule universitarie sparse oltre lo Stretto. Per non tornare più dopo. Nel dossier preliminare al rapporto 2017, presentato il 28 luglio, la Svimez afferma che la Sicilia, dal 2016 al 2065, perderà più di un milione di abitanti. Viva dunque Palermo e Santa Rosalia, ma dovremmo confrontarci con città dove la monotona normalità è l'eccellenza. Il metro di paragone non può essere il nostro ombelico. Se volgi altrove lo sguardo, ad esempio, ti rendi conto che la programmazione estiva a Palermo non c'è più. Te lo ricordi quando vedi la Piazza Grande di Dalla trasformata in un cinema gratuito. Dovremmo smetterla di sentirci speciali e iniziare a essere noiosamente normali, commisurandoci con realtà più avanti di noi. Preferendo, come ha detto su queste pagine Roberto Alajmo a commento del Festino, la programmazione che dona frutti duraturi e silenziosi ai colpi di genio episodici e alla spirtizza, che ci fanno soltanto rimirare nello specchio delle nostre vanità.

mercoledì 26 luglio 2017

Mafie: la loquacità del mondo di sotto e i silenzi del mondo di sopra.

La Repubblica Palermo

25 luglio 2017

GLI INVINCIBILI SILENZI DELLA CLASSE DIRIGENTE

Francesco Palazzo
Dopo ogni 23 maggio e 19 luglio ci rimane una certezza. Ancora tanti sono i buchi neri di verità da riempire, sia per quanto riguarda il periodo stragista, sia per che ciò che concerne i legami tra classe dirigente e cosche. Non senza amarezza abbiamo registrato la constatazione di Fiammetta Borsellino, che 25 anni si sono persi in riferimento all'attentato in cui perse la vita il padre. Ma potremmo dire che quasi due secoli si sono perduti perché mai si è riusciti a fare piena luce sulle connivenze tra criminalità organizzata e i piani alti del paese. E non certo per colpa dei mafiosi. Loro parlano, eccome se parlano. Lo fanno quando collaborano con la giustizia, quando li ascoltiamo in diretta con le intercettazioni, anche da dentro le patrie galere ci trasmettono fiumi di parole. Quella che sta allineata e coperta è la classe dirigente, soprattutto del meridione. Dove sino a oggi, saranno indebolite finché volete, imperversano tre organizzazioni criminali. Che fanno di questa parte del paese la palla al piede dell'Italia, non facendola competere come potrebbe nel sistema europeo e mondiale. Parliamo di una lunga trattativa, implicita o esplicita, che ha attraversato tre secoli, e che ha visto i colletti bianchi osservare, al contrario delle coppole storte, che invece sono affette da logorrea, un oggettivo status omertoso che costituisce davvero ancora il problema che abbiamo davanti. Sì, ci indigniamo quando la statua rappresentate Falcone o la lapide raffigurante Livatino sono profanate. Episodi, è bene dirlo, sui quali è più la retorica che viene riversata, che i provvedimenti concreti. Allo ZEN 2 c'è stata sino ad oggi una teoria di visite di ministri e massimi esponenti delle istituzioni da fare paura. Ma la situazione non si è mossa neppure di un millimetro. Ma il vero scandalo è, appunto, il silenzio delle classi dirigenti. Siamo d'accordo che la mafia, a parte il consenso che riceve, da non sottovalutare con valutazioni buoniste, dal popolo dei quartieri, non sarebbe mai diventata un fatto strutturale se non avesse mai avuto stretti legami con chi detiene il potere economico e politico. Quando la classe dirigente viene coinvolta in indagini, assume l'atteggiamento della difesa ad oltranza. Un muro contro muro che neanche i mafiosi incalliti adottano, visto che molte star del gotha criminale passano dalla parte dello Stato. È facile sentire i mafiosi che collaborano pronunciare la seguente frase. « Lo faccio perché i miei figli non crescano in questo ambiente e non seguano la mia strada » . Vi è mai capitato di sentire un'affermazione del genere da un rappresentante del mondo di sopra che si trova accusato e magari condannato? Ancora più impossibile che una tale reazione si abbia da parte di chi non è stato sfiorato da nulla ma ha macigni sulla coscienza. Ed anche qui, piuttosto, ci sono stati casi di mafiosi, il mondo di sotto, che hanno parlato di gravi reati commessi senza essere indagati. D'altra parte, anche dal punto di vista legislativo si è assunto questo status di resistenza. Quasi tutti i provvedimenti antimafia sono stati presi sull'onda dell'emergenza, il riconoscimento stesso della mafia come reato è stato votato solo nel 1982. Non pervenuta ancora la regolamentazione legislativa, chiesta da più parti da decenni, del reato di concorso esterno alle mafie. Quanti altri 23 maggio e 19 luglio dobbiamo vivere con il peso del silenzio pressoché unanime della classe dirigente rispetto ai tanti frammenti che ancora ci mancano?

giovedì 6 luglio 2017

Quanto conta il popolo delle parrocchie nella chiesa di Palermo?

La Repubblica Palermo

5 luglio 2017

IL DIALOGO CHE MANCA NELLA CHIESA "IN USCITA"

FRANCESCO PALAZZO

Di preti trasferiti e di conseguenti lamentele, sin sotto i balconi curiali di via Matteo Bonello, sono piene le cronache. Dai piani alti dell'arcidiocesi palermitana, sempre lo stesso atteggiamento. Nessuna spiegazione ai praticanti, i quali sarebbero il corpo della Chiesa, il suo cuore pulsante, lo zoccolo duro del messaggio di Cristo sul territorio. Pare che quanto avvenga all'interno del mondo cattolico, non solo palermitano, sia un fatto circoscritto alle gerarchie. Il popolo di Dio, come viene chiamato, è evidentemente, nella quasi totalità dei casi, un gregge da condurre per mano dei pastori senza troppi scambi di idee. Non si vogliono qui scomodare concetti come democrazia o "una testa, un voto". Ma un minimo di dialogo, di confronto, anche a provvedimenti presi, magari meglio prima, sarebbe il minimo. Non dei rapporti tra correligionari ma tra esseri umani. Questo vale sempre, a maggior ragione se lo spostamento avviene non per un fisiologico ricambio, ma per questioni dottrinarie. È il caso di don Alessandro Minutella, la cui forzata rimozione è stata formalizzata dalla Curia, trovando il rifiuto dei parrocchiani sino alla resistenza fisica, rientrata solo adesso. Così che per giorni è stato impedito al successore di prendere possesso, come si dice nel linguaggio clericale, della parrocchia. E già in questo modo di esprimersi sta tutta la dinamica che sottende la vita delle parrocchie e ci fa capire che non siamo di fronte a un caso eccezionale. Il parroco è il capo, questo il messaggio; gli altri, bene che vada, sostanzialmente comprimari. Perciò i fedeli non si percepiscono quali comunità di fede autonome aventi voce in capitolo, ma come masse più o meno indistinte che dipendono dai sacerdoti. Tanto che quando questi vanno via c'è il disorientamento. Ciò denota una forte criticità nella vita delle assemblee cristiane. Del resto, questo stato di cose viene confermato da chi guida le diocesi: se qualcosa non va, si sostituisce un parroco con un altro, e tutto dovrebbe, secondo i piani di chi prende simili decisioni, tornare a posto. Possiamo chiederci che Chiesa è questa? Cosa può comunicare al mondo un siffatto modo di intenderla e praticarla nei rapporti assolutamente asimmetrici tra coloro che stanno sugli altari e le masse che stanno sotto? Per invertire questo pernicioso modo d'essere del cattolicesimo si dovrebbe iniziare a dialogare con le persone. Non agendo sulla leva della misericordia e del paternalismo. Ma riconoscendo diritti tra le parti. Dicendosi reciprocamente che non è da una tunica che dipende un percorso cattolico e che i fedeli non sono i terminali di un'azione pastorale. Per far questo ci vogliono modifiche radicali, nella forma e nella sostanza. Perché allora, per dare un segnale in controtendenza, altrimenti è dura far passare il messaggio che siamo con Francesco di fronte a una Chiesa "in uscita", che si rinnova, l'arcivescovo Corrado, così come richiesto dalla gente del luogo per un'intera settimana, non è andato nella parrocchia in questione per un confronto con quanti la frequentano? Certo, sarebbe entrato nel vortice del conflitto. Ma la vita pubblica, e quella di un vescovo lo è, non è fatta solo di consensi. Siamo certi che a don Lorefice sia rimasta la curiosità sulla parte di ragione, anche piccola, di cui queste persone, a prescindere da don Minutella, sono portatrici e che andrà ad appurarla di persona. E, visto che siamo in tema di chiarimenti, sarebbe opportuno che con i fedeli della Chiesa di Palermo si affrontasse un caso, eclatante per cento volte quello di don Minutella. E cioè la rinuncia, caduta da mesi nel silenzio, del vescovo ausiliare, a causa di contrasti che scorrono nella Chiesa palermitana. Anche qui il popolo di Dio non può essere spettatore, deve sapere cosa accade, visto che ancora non c'è un vicario, farsi un'idea e dire la propria.

lunedì 3 luglio 2017

Palermo: i bambini ci guardano. E hanno diritto alla bellezza.

La Repubblica Palermo
2 luglio 2017
Una città per Anthony e i suoi fratelli
Francesco Palazzo

Registriamo la storia a lieto fine di Anthony, il bambino del Borgo Vecchio che ha segnalato il degrado in uno spazio privato, trovando questo giornale attento e il comune pronto. Pare che dall’altra parte della città, in Via Messina Marine, un altro bambino, avendo saputo di questa vicenda, ha chiesto un intervento simile. Ma, mentre riferiamo di questi due casi, non possiamo fare a meno di pensare ai tanti bambini che subiscono silenziosamente scorci quotidiani di bruttezza a Palermo. Perché, diciamolo, quello di Anthony dovrebbe essere un caso più unico che raro. Normalmente, ai bambini la bellezza dovrebbe essere offerta, quotidianamente, senza che debbano essere costretti a gesti straordinari. Sia perché i bambini devono fare i bambini. Ma anche per il motivo che questi riflettori illuminano singoli casi, tutto il resto rimane al buio. Chissà cosa pensano i bambini che abitano davanti al porticciolo di Sant’Erasmo vedendo un’area sostanzialmente abbandonata. C’è bisogno che un piccolo afferri la giacca di qualche giornalista oppure si può provvedere senza bisogno di gesti così? Ma anche i piccoli che scrutano ogni giorno, senza dire una parola, quella passarella sul mare in legno abbandonata e in malora dalle parti del Buccheri La Ferla, che culto della bellezza nutriranno? E ancora. Cosa gira nelle teste dei pargoli di Via Hazon, quartiere Brancaccio, un insediamento di centinaia di famiglie (de) portate all’inizio degli anni ottanta? Ci passo spesso. Vedo un grande palazzone senza portone d’ingresso, dove entrano ed escono piccoli esseri umani e un altro che ha di fronte un rudere accanto al quale “giocano” piccoli uomini e donne. E cosa occupa le teste dei piccoli e delle piccole nati in un quartiere come lo ZEN 2, ormai non più a favore di telecamere elettorali? Qualcuno di loro avrà il coraggio di Anthony in questo come negli altri quartieri, periferici o meno, dove in molti, troppi casi, non trionfa la bellezza? E seppure accadesse, un’altra volta e un’altra volta ancora, avremmo risolto, ma solo casualmente, dei piccoli frammenti di disagio. Ma il compito della politica non è quello di navigare nel casuale, nell’eccezionale, nell’episodico, nel sensazionale. La buona politica veste l’abito della normalità. Anthony, e tutti i bambini e bambine di questa città, non dovrebbero sentire su di loro il peso di macigni grandi come montagne da spostare. Abbiamo il dovere di garantirgli una vita normale. Il brutto dovrebbe sparire dalla loro vista senza che gridino o lo subiscano muti. Il bello dovrebbe essere una costante dei loro orizzonti di vita, così come l’affetto dei genitori. Ecco, come programma di questa amministrazione, magari quando avrà finito di progettare il governo della regione e inizierà a concentrarsi di più su quello della città, ci pare abbastanza concreto. Si percorrano tutte, ma proprio tutte, le strade del capoluogo e si sostituisca alla narrazione della città che viaggia verso la perfezione quello della comunità guardata con gli occhi dei bambini. Ci si metta a guardare Palermo dal loro punto di vista e si veda cosa non va, facendolo sparire dalle loro vite. Forse, così facendo, il quinquennio che abbiamo davanti inizierà per Palermo nel verso giusto. Una città a misura di bambino sarà più bella e vivibile per tutti.

venerdì 23 giugno 2017

Antimafia: sicurezza ed estetica. Palermo non è Stoccolma.

La Repubblica Palermo
22 giugno 2017

I lavori in corso al palazzo di giustizia se la sicurezza prevale sull'estetica

Francesco Palazzo

 Quando entrano in conflitto sicurezza ed estetica bisogna sempre contestualizzare. Una cosa è mettere nel calderone della polemica questi due aspetti a Stoccolma, un'altra discuterne a Palermo. E, visto che non siamo in Svezia, dobbiamo chiederci se devono più preoccuparci i timori di un magistrato come Roberto Scarpinato oppure le, ragionevoli e per carità rispettabili, critiche di insigni urbanisti e architetti palermitani. Ci riferiamo alla polemica in corso sui lavori dentro la cittadella giudiziaria. Si stanno collegando palazzine con dei passaggi in vetro blindato e ferro, interrompendo in quei tratti la viabilità che era stata virtuosamente progettata e realizzata. Si dice che tali collegamenti già esistono nei sotterranei e in alto e che non c'era bisogno di crearne altri. Ma, evidentemente, se i lavori sono stati approvati vuol dire che le motivazioni della sicurezza hanno avuto, giustamente, il sopravvento su altre pur fondate ragioni. Afferma Scarpinato che, viste le minacce degli ultimi tempi, si deve ricorrere a tali ulteriori schermature. Quando verranno meno le preoccupazioni, continua, che non possiamo che ritenere gravi e presenti, vista l'autorevolezza del magistrato che parla, si toglieranno tali ulteriori passaggi protetti. Ora, tenuto conto che comunque il sito complessivamente manterrà la sua fisionomia, dobbiamo riflettere, come società civile, più che sull'estetica sul fatto che ancora vi siano magistrati così esposti. Tanto da non poter star sicuri sin dentro il palazzo di giustizia più protetto d'Italia. E, di rimando, se ci rimane tempo dopo la polemica che ci impegna, focalizzare la circostanza che ci sia ancora una criminalità organizzata così forte da minacciarli sin lì. Infine, altri due rilievi. Il primo si riferisce all'affermazione che la cittadella giudiziaria è stata così concepita perché devono essere i cittadini a proteggere i giudici. Bella prospettiva. Se fossimo appunto a Stoccolma. A Palermo, con tutto il sangue che abbiamo alle spalle, sembra più un auspicio, posizionato chissà in quale futuro. Inoltre si ritiene, ed è vero, che tale opera urbanistico-architettonica ha ridisegnato, e non si può negare, un nuovo rapporto tra i luoghi dove si amministra giustizia e la città, riqualificando la zona. Anche se qualche dubbio si può avanzare. Il mercato del Capo è a due passi, non sarà difficile per nessuno notare che, più o meno a tappeto, regna il far west dal punto di vista dei titoli d'acquisto, più volgarmente detti scontrini fiscali. Difficile uscire con sacchetti pieni di spesa e i corrispettivi pizzini attestanti l'esborso. Alcuni esercizi commerciali non hanno neppure la cassa da dove fare uscire i mitici pezzetti di carta. Estendendo lo sguardo a tutto il quartiere non è che si possa dire che la bellezza trionfi in maniera lampante sol perché si è insediato un manufatto di pregio. A Palermo le cose sono complicate, per usare un eufemismo. A pochi passi dal Palazzo di Giustizia è stato ucciso platealmente a legnate un penalista. Teniamo dunque in considerazione estetica, assetto architettonico e visione urbanistica. Ma non dimentichiamo tutto il resto.



venerdì 16 giugno 2017

Una lettura delle elezioni a Palermo guardando al futuro.

La Repubblica Palermo 

15 giugno 2017

L'eterno sindaco, la mezza città delusa e cinque anni per immaginare il futuro

Francesco Palazzo

Vincono a Palermo gli elettori muti, perdono i grillini. Ha la meglio il sindaco, che mette insieme liste forti. Riuscendo a parlare a tutti i quartieri di Palermo, che però per metà se ne sta a casa. Nei prossimi cinque anni vanno rimesse assieme queste due parti di città. Pur con una moltitudine di candidati, in troppi hanno disertato. Forse per una legge elettorale astrusa. Ci voleva molto a inviare i due facsimile per famiglia e spiegare bene come votare? Parliamo della qualità nella formazione del consenso. Ma ci sono questioni più concrete dietro lo scontento. Molti problemi di questa comunità sono tali da decenni. E non è indicando i governi di centrodestra che si giustifica il non fatto. Sia nei cinque anni di adesso, sia negli anni Novanta. Quando c'erano più consenso e più soldi. Ferrandelli, con un buon risultato, ha tenuto viva la partita. È giovane, ha un progetto e, a fronte dei tanti che si sono nascosti ancora una volta sotto il mantello orlandiano, ci ha messo nuovamente la faccia. In politica è una virtù. Anche se le sue liste non hanno funzionato tutte bene. Forse si sarebbe avvantaggiato se avesse tenuto ferma, nell'avvicinamento al centrodestra, la barra del civismo. Terreno dove Orlando è invece stato più deciso, vincendo in questo campo le elezioni. Ho avuto l'impressione che Ferrandelli non ha mai sentito suo questo schieramento, e una parte di elettorato, quella decisiva, lo ha capito. Non c'è stato in tutta la campagna elettorale un momento pubblico comune. Si è evitata la chiusura in piazza della campagna elettorale per togliere tutti dall'imbarazzo. Quando si prende una strada, va percorsa sino in fondo. Altrimenti perdi da una parte e dall'altra. Il listone con dentro il PD, sommato al grande passo falso dei Cinquestelle, consente a Orlando il colpo di reni per farcela al primo turno. Forello non è riuscito a scaldare i palermitani. I grillini devono superare lo schematismo. Non puoi presentare, anche se il cocente cappotto non ha solo questo movente, una sola lista con una legge elettorale simile. Il PD lo vediamo con il cannocchiale. I democratici dovranno fare un ragionamento su Palermo. Con idee e persone nuove. Dopo quasi quarant'anni, nel 2022, non ci sarà più la coperta di Orlando a coprire la loro storica e mai risolta debolezza sul suolo palermitano. L'eterno sindaco, dunque, inizia questo mandato essendo espressione di una parte abbastanza ristretta di elettorato. Deve ricordarselo. Poiché è al suo ultimo giro, non avrà più alibi. Se guardiamo al programma del 2012, molto è rimasto sulla carta. Poche cose sono state fatte. Il resto si è appoggiato sulle capacità del sindaco di valorizzare la sua azione e la sua persona. Ma c'è anche il futuro. Da qui al 2022 il compito, per la politica palermitana, è quello di scoprire nuove figure che possano prendere in mano la pesante eredità, da qualsiasi lato la si guardi, orlandiana. Palermo dovrà immaginare il futuro senza una presenza che ha avuto tanti risvolti positivi ma che ha anche reso difficile, impossibile in alcuni passaggi, il ricambio generazionale. Di cui questa città ha bisogno. Perché ai cinquemila giovani palermitani che vanno via ogni anno per sempre, una risposta credibile e duratura bisogna pur darla. E non rimarranno, né torneranno, solo perché chiudiamo qualche pezzo di strada e ci passeggiamo sopra.

mercoledì 31 maggio 2017

venerdì 12 maggio 2017

L'antimafia difficile. E quella facile.

La Repubblica Palermo 
11 maggio 2017
Manuale per una seria antimafia al tempio dell'antimafia di cartone
Francesco Palazzo

Quest'anno ricorrono i 25 anni delle stragi di Capaci e Via D'Amelio. Di strada se ne è fatta tanta. Alcuni studiosi sono sicuri nel dire che la mafia non ha vinto, che non abbia sempre la meglio e che non sia dappertutto. Ci sono ragioni per sostenere ciò. Ma, nello stesso tempo, si vede un'antimafia in crisi. C’è chi addirittura propone di mandare in archivio il termine stesso. C’è chi prova da quarant’anni (vedi l’intervista di domenica 7 maggio a Umberto Santino di Salvo Palazzolo), a percorrere una strada non legata al sensazionalismo e all'emotività. Che riconosce i passi in avanti, senza per questo parlare di mafia completamente sconfitta o ininfluente, e non nega i passi falsi dell’antimafia, senza fare di tutta l’erba un fascio. È nato nel 1977 il Centro Siciliano di Documentazione poi intestato a Giuseppe Impastato. Nel difendere e promuovere la biografia dell'attivista politico di Cinisi, troviamo una prima traccia per un'antimafia dalle basi solide. Il centro è stato protagonista in questa storia, sia dal punto di vista giudiziario che politico. Dopo I cento passi è facile parlare di Impastato. Non lo era nel 1978. Allora, una prima cosa che può essere utile all'antimafia è lavorare non sulla mera condanna della criminalità organizzata, ma sull’individuazione di contesti precisi spendendosi per essi. Ma non basta. Ci vuole l'analisi, capire cosa è la mafia, non in generale, ma proprio indagarla nei suoi aspetti operativi e organizzativi, territorio per territorio, altrimenti si rischia di girare a vuoto. Il Centro Impastato, ecco un’altra pista per un’antimafia non di cartone, ha fornito studi e interpretazioni del fenomeno mafioso. Contemporaneamente c’è stata la militanza attiva. Pensare sì, per l’antimafia, ma anche agire, sporcarsi le mani. Un altro aspetto che ha contraddistinto la realtà fondata da Santino e Anna Puglisi sono i soldi pubblici. Siccome non condividono le modalità con le quali vengono assegnati i finanziamenti, si sono tenuti fuori. Tanti denari girano nell'associazionismo, non soltanto antimafia. Non di rado sono state scoperchiate situazioni che hanno lasciato l'amaro in bocca. Un altro che non voleva soldi pubblici era don Puglisi. Con le scarpe bucate e l’auto scassata fece molta paura alla cosca di Brancaccio, sino alle estreme conseguenze. Le amministrazioni pubbliche, per evitare di elargire somme senza criterio, potrebbero fornire solo beni e servizi per singole attività. In modo che quanti vogliono lavorare possano farlo. Un esempio ci viene dalla recentissima La via dei Librai. Il comune ha fornito diversi presidi per la riuscita della manifestazione. Il volontariato benedetto da fondi a pioggia rischia di creare stipendifici e holding di potere, scatole vuote talvolta, con gente che si abbarbica a vita a rendite di posizione. Se non si è disposti a metterci gratuitamente anche del proprio, e i fondatori del Centro Impastato utilizzano una parte della loro casa per ospitare quella che oggi è una onlus, ci si deve chiedere perché lo si fa. Un altro pezzo di antimafia virtuosa è rappresentato dalla capacità di fare percorsi comuni. Il Centro, negli anni ottanta, si è impegnato nel coordinamento antimafia e nelle sue successive declinazioni. Ha anche, con altre realtà, avanzato richieste, vane, alle amministrazioni comunali affinché si individuasse un immobile per farlo diventare sede dell'associazionismo. In modo che si potessero mettere insieme e potenziare pratiche e saperi. Ha poi lanciato la proposta di un Memoriale Laboratorio della lotta alla mafia, che possa offrire una casa alle associazioni e un percorso storico del fenomeno mafioso/antimafioso. Il comune ha mostrato interesse, ma non abbiamo sinora visto risultati concreti. Infine, il Centro Impastato ci ha abituato ad una lettura più complessiva della società. La mafia non può essere affrontata come un singolo frammento, vive nella storia e stabilisce rapporti con gli altri agglomerati sociali: politica, società, economia, professioni, borghesia, ceti popolari. Che vanno studiati e compresi anch'essi se non si vuole guardare la multiforme realtà con un occhio chiuso e l'altro mezzo aperto. (Versione integrale con la parte finale non pubblicata per motivi di spazio).