mercoledì 12 dicembre 2018

L'antimafia attenta e concreta che ci vuole.


La Repubblica Palermo – 12 dicembre 2018
L’antimafia di chi crea lavoro e non fa carità
Francesco Palazzo

La comunità cristiana di San Saverio la sensibilità del recupero di chi vuole rimettersi in gioco ce l’ha nel Dna. 
Insieme al Centro San Saverio, tra i pochi in Sicilia, hanno creato lavoro e non carità. 
Da queste due realtà decenni fa nacquero, all’Albergheria, una gelateria, un’agenzia di viaggi e una  trattoria con trent’anni di attività. 
È ciò che devono fare coloro che non vogliano limitarsi a drenare assistenza a vita, alla lunga soldi persi. Parliamo di persone il cui percorso deve essere leggibile da chi tende la mano. 
Cosa diversa se ci si trova davanti a biografie da sfogliare con attenzione.
La buona fede e la conoscenza del territorio devono andare insieme. Altrimenti si fanno autogol. Di cui un’antimafia già claudicante non sente il bisogno.
Ma un infortunio, per quanto rilevante, non mette in discussione il metodo: creare vera promozione umana e non volontariato a buon mercato, del quale si può approfittare.
Strada che andrebbe ripresa da tutti quelli che si spendono per gli altri. 
Sovente dando il pesce quotidiano e non la canna per pescare autonomamente salari e dignità.


domenica 9 dicembre 2018

La mafia combattuta dal singolo e cercata dai più, certa antimafia in ritardo o a salve.


La Repubblica Palermo – 9 dicembre 2018
L’antimafia dei distintivi e quella dei fatti
Francesco Palazzo

La denuncia della richiesta di pizzo del costruttore Giuseppe Piraino non ha coinvolto, nemmeno come privata solidarietà, suoi colleghi imprenditori. Lui stesso ce lo dice. 
A 27 anni dall’assassinio di Libero Grassi, che faceva solo il suo dovere di uomo libero in mezzo a tanti che stavano zitti, ci pare di non esserci spostati poi molto. Soprattutto se consideriamo la circostanza che non si è costruita, in quasi tre decenni, una rete di protezione e consenso che renda normali tali reazioni di fronte a chi minaccia la libertà d’impresa. L’antimafia, in questo settore, ha smosso più chiacchiere e distintivi che fatti. 
Come allora, il gesto di Piraino è più unico che raro.  
Intanto, dall’ultima operazione antimafia viene fuori che Cosa nostra è cercata per i bisogni più vari. Anche qui registriamo che non c’è soluzione di continuità rispetto al passato. 
Abbiamo, dunque, da un lato, una condotta coraggiosa, che indica a tutti la via da seguire, dall’altro scorgiamo non evidenti cambiamenti. 
La forza del singolo in un sistema sociale tornato ad essere distratto nel contrasto alle cosche.


sabato 17 novembre 2018

Eresia, scisma e scomunica a Palermo. Chiamiamo Guglielmo da Barskerville.


La Repubblica Palermo
16 novembre 2018
Il vocabolario medievale della chiesa
Francesco Palazzo

Leggere le parole scisma, eresia, scomunica nel 2018 è molto strano. Ci si sente di botto calati nelle scene del film Il nome della rosa. 
Solo che tra quel clima, ricostruito prima nel romanzo e poi sullo schermo, e oggi, è passato qualche annetto. Speravamo con rilevanti novità.
Soprattutto adesso che in Vaticano si declina il termine misericordia in tutte le forme possibili e immaginabili. 
Invece a Palermo, nei confronti di un sacerdote, don Minutella, cade questo triplice fischio di fine partita, notificato allo stesso il 13 novembre.
 Eresia, scisma, scomunica. Si può dissentire nel mondo cattolico? 
Se qualcuno non concorda con la linea, giusta, di rinnovamento che si è inaugurata nella chiesa di Roma, lo si può sollevare, com’è avvenuto nel nostro caso, dall’incarico parrocchiale. Ma tra questo e passare alla soluzione definitiva, nel 2018 non nel 1327, anno in cui è situata la storia di Umberto Eco, ce ne vuole.
 Ma è così difficile togliere, sempre con misericordia parlando, dal vocabolario religioso e dal diritto canonico, sanzioni così pesanti e ormai fuori dalla storia?


venerdì 16 novembre 2018

Brancaccio, l'antimafia di Don Puglisi, perchè è morto e una proposta di pastorale contro le cosche.


Rivista Segno n. 399 – Il Papa a Palermo e la testimonianza pastorale di Puglisi

Don Puglisi, una frontale opposizione a Cosa nostra
Francesco Palazzo

Perché la mafia ha ucciso don Pino Puglisi? Cosa ne è del suo sacrificio nella chiesa siciliana dopo 25 anni? Se la mafia uccide, vuol dire che quella persona minaccia le sue trame. Quindi se quella interrotta brutalmente era una strada corretta, bisogna capire a cosa corrispondeva e poi seguirla. Altrimenti le parole prendono una strada, i fatti un'altra. Cosa ha messo in atto 3P dal 1990 al 1993 da armare menti e mani mafiose? Si è detto che toglieva i bambini dalla strada. Come altri presbiteri, mai sfiorati da Cosa nostra.

Brancaccio, il quartiere di don Pino
Prima di avanzare un’ipotesi meno improbabile, diamo uno sguardo al posto dove Puglisi ha trascorso, dopo esservi nato, gli ultimi tre anni. Brancaccio, dove sono nato e cresciuto, è quartiere un tempo a vocazione agricola, nasce nel 700 e prende il nome dal governatore di Monreale, il napoletano don Antonio Brancaccio. Nel 1747 fece erigere la chiesa di S. Anna, successivamente dedicata a San Gaetano da Thiene, la parrocchia di don Pino. Nel territorio sorge il Parco della Favara con il Castello Arabo Normanno, residenza dell’emiro Giafar inacciaal-Kalbi e del sovrano normanno Ruggero II. Gli abitanti ricadenti nell’ambito parrocchiale sono attualmente circa ottomila. Nella mia generazione, quasi tutti si andava a scuola e oggi si continuano a frequentare le aule scolastiche, con laureati, diplomati, professionisti, professori, pure universitari, impiegati e artigiani. Don Pino non trova, come si è letto nei libri e visto nelle fiction, giovani originari del quartiere allo stato quasi animalesco. In realtà, si occupa di circa 150 famiglie, provenienti dal centro storico della città. Nuclei familiari ghettizzati dalla politica e inviati in alcuni palazzi di Brancaccio all'inizio degli anni ottanta. Con tutte le immaginabili conseguenze, in termini d'integrazione e di deterioramento del tessuto sociale. Da allora poco o nulla è mutato, anzi negli ultimi due decenni c’è stato un peggioramento. In tale contesto si gioca tutta, o quasi, la vicenda del beato. Che per bonificare quella zona, dove mancava pure la rete fognaria, sposa la causa del Comitato Intercondominiale Hazon, composto da persone che avevano acquistato case in quella che doveva essere una zona residenziale. Il comitato voleva portare civiltà e servizi dove la politica aveva imposto isolamento e invivibilità. A tre esponenti di punta del comitato, che era una cosa sola con 3P, bruciano le porte in una notte di fine giugno 1993, a poche settimane dall'agguato che elimina un presbitero mite e indomabile per le malate logiche mafiose. I processi hanno mostrato che i due moventi mafiosi, incendiario e omicidiario, coincidono. Puglisi muore perché vuole cambiare quel pezzo di rione, le logiche aberranti che lo guidano, mettendo in discussione la manovalanza criminale che lì si era messa a disposizione della mafia stragista che regnava nella zona. Il sangue di don Pino viene sparso per riscattare un piccolo lembo, creato da una politica miope, di un quartiere di Palermo. Non sembri una diminutio del suo operato. Tutti possiamo dire e scrivere che la mafia fa schifo. Ma tra il dire e il fare ci sta di mezzo la capacità di spendersi sul pezzo di territorio che ci viene consegnato, per scelta, per caso o per nascita. Altrimenti la lotta alla mafia rischia di essere un facile gioco di società. Puglisi non è nuovo a tali azioni. In altri angoli di quella parte di Palermo, la bidonville dello Scaricatore e l’agglomerato di case popolari senza servizi, a ridosso della chiesa di San Giovanni degli Eremiti, aveva agito allo stesso modo. La profezia non riguarda i massimi sistemi, in questo settore troviamo folle. Se andiamo in profondità i numeri si diradano. Talvolta la lotta alla mafia coincide con il mettere una parola dietro l’altra. E per questo l’antimafia si è macchiata e si tinge di errori e protagonismi a salve. Dal campo di gioco delle buone intenzioni si esce indenni. Altra cosa è non mollare negli ambiti senza luce. E lì giocarsi tutto. Questa è la cifra di don Puglisi.

L’esperienza del parroco Giuè
Quindi don Pino incrocia la violenza mafiosa non per i bambini, ma perché lavora con gli adulti. Con costanza, metodo, meticolosità, decisione. È questo che la mafia, supportata dalla malapolitica, non accetta. Ma era la prima volta che a Brancaccio, nella chiesa di San Gaetano, accadeva? No, dal 1985 al 1989, a guidare la parrocchia era stato chiamato Rosario Giuè, un giovane prete originario di Marineo che stava completando gli studi superiori di teologia a Roma. Nei quattro anni si distingue per innovazioni pastorali, azioni sociali, contrapposizione alla mafia e alla malapolitica locali. A S. Gaetano si svolgono incontri con le giunte della primavera guidate da Leoluca Orlando, quando quell’azione politica e culturale toccava il suo apice. Tanti giovani del quartiere lavorano con il parroco, poi confluiti nell’azione cattolica collaborando con un giovane viceparroco succeduto a Giuè, Franco Artale. Nasce in parrocchia la biblioteca Claudio Domino, con scaffalature espositive e libri donati in larga parte dalla Facoltà Teologica di Palermo e tanti volumi usciti dalle case di Brancaccio. Quando don Pino arriva a San Gaetano, nell’ottobre del 1990, trova dunque tanti giovani attivi, che frequentavano università e scuole superiori, una biblioteca funzionante con più di tremila volumi, gente abituata a lavorare in un certo modo. Ma succede che, mal consigliato da chi poi lo lascerà solo, si lascia convincere che quei giovani volevano formare una sezione di partito, cosa non vera, frequentavano da piccolissimi i locali parrocchiali. Ma quel gruppo, di cui facevo parte, viene sciolto.

La chiesa siciliana dopo 25 anni
Considerato che abbiamo risposto alla domanda relativa al perché don Pino viene fatto fuori, e cioè per la pastorale con gli adulti e non per quella con i piccoli, dobbiamo rispondere alla seconda domanda. Cosa ne è stato nella chiesa sicula in questi 25 anni, culminati con la visita papale, dell'insegnamento di don Pino? Prima di rispondere vediamo come agiva Puglisi. Forse implorava assistenzialismo e distribuiva carità attraverso le casse pubbliche? No, venivano chiesti, senza tregua e con la schiena dritta, diritti, promozione umana, infrastrutture, servizi. Dal 1993 a oggi i parroci, le parrocchie, le diocesi, sono stati e sono presenti con lo spirito e il metodo di don Pino, o ha finito per prevalere un cattolicesimo che non sposta, assistenzialismo delegato a parte, una foglia? Oltre le scomuniche e i documenti dei vescovi, le omelie infuocate nei duomi, si sta sotto i campanili, dove non si reca fastidio a nessuno? La visita del successore di Pietro nei luoghi di don Pino, proprio perché è un imprimatur d’ora in poi inamovibile sul suo operato, deve consentire a tutta la comunità cattolica siciliana di rispondere a tali fondamentali interrogativi. Sciogliendo un nodo fondamentale. Perché i parroci, i vescovi, lo stesso pontefice, negano l'antimafiosità di Puglisi? Egli grida, anche dal pulpito negli ultimi tempi, accusa i mafiosi, suscita contese, pure in parrocchia, dove trova contrapposizioni. Arriva in solitudine a quel colpo di pistola alla nuca. Sì, non faceva certo retorica o proclami a vanvera. Ma è stato ucciso, se non vogliamo raccontarci altro, per la frontale contrapposizione alla mafia, dall'altare e sul territorio. E quando diciamo che le manifestazioni e gli appelli non servono più, ricordiamoci che Puglisi va allo scontro conclusivo con i suoi carnefici promuovendo, a maggio e a luglio del 1993, a Brancaccio non in Via Libertà, per gli anniversari di Falcone e Borsellino, due grandi manifestazioni antimafia, riprese dai media. Inoltre mette la firma sulla richiesta di intitolare a Falcone e Borsellino una via di Brancaccio. Senza contare che due appelli erano partiti verso la presidenza della Repubblica e che per il 22 settembre, una settimana dopo l’uccisione, era riuscito ad ottenere un incontro riservato con il presidente della Commissione Antimafia, Luciano Violante. Don Pino era, se non all'inizio della sua vicenda a Brancaccio certamente alla fine, un sacerdote dalla esplicita connotazione antimafiosa. Che la chiesa non voglia riconoscere tale aspetto perché difficile da replicare, non lo cancella affatto.

                                                                                Non si vedono piani pastorali ispirati a Don Pino
Cosa è avvenuto dunque nella chiesa in questi a 25 anni? A nessuno può sfuggire, credente in dio o in altro, che l'azione dei cattolici, essendo dislocata dappertutto con le parrocchie, è importante, in questo come su altri versanti, per tutta la società. Facciamo questa domanda dopo un quarto di secolo, tempo più che congruo per pensare, scrivere, programmare, attuare, modificare e riproporre con le correzioni ritenute necessarie, una pastorale diretta al contrasto del crimine mafioso. Chiediamoci quante comunità parrocchiali, se vogliamo uscire dalla visione clericocentrica, hanno sposato e perseguono il sentiero di Puglisi. Ho l'impressione che vi sia stata una regressione complessiva e un ritorno dentro le sagrestie, anche con riferimento a una stagione preesistente allo stesso don Pino, pure a Brancaccio come visto, in cui c'erano diverse realtà cattoliche sensibili alla tematica. Non si è neppure provato a tracciare una pastorale condivisa e specifica con i sacerdoti e le comunità parrocchiali, che provasse a mettersi di traverso, come ha fatto Puglisi, alla mafia e alla malapolitica. Considerato che da entrambi è stato ucciso. Se vi fosse stata o se ne trovassimo una pur labile traccia, potremmo confrontarci con essa e valutarne gli effetti, anche soltanto potenziali. Se la chiesa dice che don Pino è il suo punto di riferimento, se ogni 15 settembre, giorno della sua scomparsa, a Palermo inaugura l'anno pastorale diocesano, deve comportarsi di conseguenza.

Otto titoli di una pastorale antimafia
Tracciamo di seguito otto titoli di una pastorale antimafia che ancora non esiste e che percorra la scia lasciata da don Pino.
1) Analizzare i territori parrocchiali delle diocesi;
2) Lavorare insieme alle realtà che già operano localmente, quindi operare con gli adulti;
3) Chiedere diritti e strutture e non assistenzialismo o fondi pubblici;
4) Chiamare le istituzioni alle loro responsabilità nei quartieri senza fare sconti;
5) Mettere in campo la dimensione dell'ascolto e non soltanto sacramenti e processioni;
6) Fare in modo che i mafiosi percepiscano come inospitali le sagrestie e le funzioni religiose;
7) Nominare commissioni di studio nelle diocesi con esperti sulla criminalità organizzata, coinvolgendo presbiteri e fedeli;
8) Analizzare nello specifico l'impatto nei singoli territori parrocchiali della criminalità mafiosa e porsi pubblicamente da un'altra parte.

Questo, più o meno, ciò che si sarebbe dovuto fare in questi venticinque anni. Invece si è parlato molto del sorriso di don Pino, del me l'aspettavo, e poco altro si è fatto. Peraltro posso testimoniare, avendo incontrato casualmente don Puglisi in una sera del luglio 1993, che quel sorriso lo aveva perso e che era un uomo molto addolorato per la sordità della politica alle sue richieste per il quartiere.
Se quanto scritto non è lontano dal vero, dobbiamo prendere atto che tutta la comunità cattolica isolana non ha ancora fatto bene i conti con quel colpo di pistola alla nuca sparato a bruciapelo in una calda sera di settembre del 1993.
L’eredità di don Puglisi non è facile da raccogliere. Ma si può sempre cominciare proseguendo sul cammino delle già robuste buone intenzioni.

mercoledì 7 novembre 2018

Noi, l'ambiente e cosa c'insegna il pediatra Giuseppe Liotta.

La Repubblica Palermo
7 novembre 2018
Se ognuno fa qualcosa per l’ambiente
Francesco Palazzo


IL territorio è la casa comune.
Prima di essere ferito da azioni che portano tragedie, viene giornalmente fatto oggetto di noncuranza, inciviltà, negligenza. 
Ciascuno deve fare un onesto esame di coscienza. Ci vuole empatia nei confronti del suolo che calpestiamo.
Abbelliamo le case, curiamo l’aspetto fisico e poi trattiamo con sufficienza, se non con volontà di arrecare male, la terra che abitiamo. 
Sono i gesti quotidiani che costruiscono una virtuosa politica ambientale.
Nessuno può dire: non c’ero, non mi ero accorto di nulla, non è compito mio. È tutto, da tempo, sotto gli occhi di tutti. 
Non sono gli eventi meteorologici, mutati per responsabilità umane, i nemici. Siamo noi il problema.
Quando ci troviamo fuori dalle mura domestiche dovremmo capire cosa non va in ciò che ci circonda. E quale parte abbiamo nel peggiorare o migliorare la situazione. 
Dobbiamo fare per intero, con meno parole e più fatti, la nostra parte nell'ambito che ci è toccato vivere. 
Pensiamo al pediatra che andava da Palermo a Corleone per svolgere la sua professione al servizio dei piccoli pazienti.

venerdì 2 novembre 2018

Halloween, la tradizione dei morti in Sicilia e Manifesta.


La Repubblica Palermo – 2 novembre 2018
Halloween, l’ultimo nemico
Francesco Palazzo
Ogni anno uno spettro s’aggira per la Sicilia. È Halloween. Ricorrenza questa volta presa di mira alla grande da scuole, cattolici e politica. L’obiettivo è salvare la cultura siciliana. Che tra Ognissanti e la commemorazione dei defunti prevede, o prevedeva, visto che è un’usanza quasi abbandonata, e Halloween nulla c’entra, di far trovare ai piccoli giocattoli e cibo, indicando quali benefattori i defunti della famiglia. Un modo per tenere vivi i legami di memoria. Molti abbiamo teneri ricordi delle albe del 2 novembre. Giusto recuperare le tradizioni. Ma perché indicare nemici da combattere? Non ne vengono forse additati già troppi? Manifesta, la biennale nomade d’arte contemporanea, a Palermo da giugno al 4 novembre, c’invita a coltivare la coesistenza. Peraltro, non c’è sovrapposizione temporale tra l’andare in giro con le sinistre zucche sorridenti, maschere e abiti macabri, facendo la domanda dolcetto/scherzetto, e la nostra festa dei morti. Il messaggio da recapitare a chi cresce è sì quello di rafforzare le radici. Ma senza temere, oggi più che mai, le contaminazioni culturali.

domenica 28 ottobre 2018

PD in Sicilia, la guerra intorno agli ombelichi dei dirigenti.


La Repubblica Palermo – 28 ottobre 2018
I democratici nella caverna autoreferenziale
Francesco Palazzo



Il PD siciliano, dalla nascita, è in permanente seduta d’introspezione litigiosa. 
Ciò ha causato l’incapacità di farsi intendere dai siciliani. 
L’Isola è la Caporetto del consenso per i democratici. Quando altrove perdono, da noi straperdono. Anche le vittorie sono state mutilate per i voti raccolti qui. 
Ma tale situazione non ha mai capovolto le abitudini belliche fratricide del gruppo dirigente.
Ora, in vista del congresso nazionale, accantonata la proposta di una gestione collegiale tipo armistizio armato, si faranno le primarie per eleggere il segretario regionale.
La guerra nei mesi a venire sarà ancora più cruenta. 
È incomprensibile come un partito che dispone, pure nella nostra regione, di passioni e competenze, tra gli iscritti e nell'elettorato di riferimento, si perda nel labirinto mentale dell’autodistruzione. 
Ma è così difficile riporre le spade e sfoderare la politica? 
In Sicilia gli spazi per un partito coeso, che guardi fuori e non le proprie scarpe ci sarebbero. 
Per provarci bisognerebbe riemergere dal pantano delle correnti e dalle caverne autoreferenziali.


domenica 21 ottobre 2018

Costa sud, libro dei sogni e realtà attuale.


La Repubblica Palermo – 21 ottobre 2018

Le occasioni perdute sulla costa sud

Francesco Palazzo


La costa sud, oggi illuminata dall’iniziativa di Repubblica e Legambiente durante la quale si pulirà la spiaggia della Bandita, con in campo diverse associazioni e cittadini, negli ultimi anni si sono sprecate moltissime buone intenzioni. Rimaste sostanzialmente incorniciate nel nulla. 
Ogni tanto si annunciano mirabilie da paese dei balocchi. Il tempo di sentirle e archiviarle nello scaffale del bello e impossibile. 
Il litorale che va dal porticciolo di Sant’Erasmo al Teatro del Sole di Acqua dei Corsari potrebbe essere, come lo fu in un lontano passato, prima che il mare e il territorio divenissero la discarica dello sviluppo di Palermo, un volano per l’economia di tutta la città. 
Altro che assistenzialismi passati, presenti e futuri. 
Ai giovani, a chi è senza lavoro, vanno fornite vere occasioni di impresa, creando le condizioni, in questo caso ambientali, affinché possano costruirsi il quotidiano sostentamento. In tutti gli altri casi si continua a offrire sottosviluppo. 
Quando si passerà per la costa sud dalle parole ai fatti?

mercoledì 17 ottobre 2018

Curare Palermo: cosa possiamo fare per la città.


La Repubblica Palermo – 16 ottobre 2018
Se ognuno fa qualcosa per la città
Francesco Palazzo
Da Sferracavallo a Brancaccio, da Monte Pellegrino all’Oreto, dalla costa sud a Piazza XIII Vittime.
Repubblica Palermo ha raccontato di una trentina di realtà associative, con 80 volontari, che curano Palermo.
Virtù civiche che costruiscono politiche.
 Puglisi ci dice: «Se ognuno fa qualcosa, si può fare molto». Anche se aggiunge di non illudersi, sono segni affinché chi deve si metta nelle condizioni di provvedere. Ma ciò non toglie che questi frammenti d’impegno, soprattutto se superano le particolarità facendo sintesi, siano una ricchezza. E uno stimolo per tutti. Soprattutto nel quotidiano, dove con tante microazioni di inciviltà (seconde file nelle strade, lancio di rifiuti e cicche dappertutto, pagamento del pizzo ai parcheggiatori estorsivi...) si rende la città più sporca, invivibile e insicura. 
Rendiamoci conto che, se non tutto, più di qualcosa dipende da noi. Occorrono poco tempo, limitate energie, un minimo d’attenzione e un pizzico di senso civico. 
Possiamo girarci dall’altra parte, contribuendo magari al degrado, o diventare protagonisti di piccoli ma decisivi cambiamenti.

venerdì 12 ottobre 2018

PD e Centrosinistra, salviamo le pecore del sardo.



La Repubblica Palermo – 11 ottobre 2018

La sindrome della sinistra che fa vincere il nemico pur di far perdere l’amico
Francesco Palazzo

Alla “Leopoldina” palermitana l’ex ministro degli Interni Marco Minniti, durante l’intervista finale, in cui ha chiarito con apprezzabili parole e trasporto umano quanto fatto in tema d’immigrazione, ha raccontato una barzelletta. Dio fa un regalo all’Italia, chiama san Pietro e gli dice di portargli tre italiani. Pietro sceglie un romano, un sardo e un calabrese. Vengono portati al cospetto del Padreterno, che dice loro: «Esprimete un desiderio e io lo realizzerò». Il romano si fa avanti: «Vorrei che Roma tornasse agli antichi splendori, caput mundi». Il Padreterno esegue. Arriva il sardo: «Io sono molto modesto, vorrei un gregge con mille pecore». Accontentato. Quando è il turno del calabrese, questi si avvicina all’orecchio di Dio e gli dice: «Io non chiedo niente per me». «Possibile?», chiede l’Altissimo. «Sì — spiega il calabrese — voglio soltanto che muoiano le pecore del sardo». La morale è facile da ricavare, difficile da attuare. Riguarda intanto il Pd. Ma il trattamento riservato a Matteo Renzi, dai suoi e dalla sinistra esterna ai democratici, è soltanto l’ultima puntata. La stessa pratica del «voglio che muoiano le pecore del sardo» è stata messa in pratica pure facendo cadere, in nome di una sinistra che sta nell’alto dei cieli, i due governi Prodi nel 1998 e nel 2008. E se andiamo indietro nella storia repubblicana, troviamo altri momenti simili. L’obiettivo è il solito: mettere in discussione il riformismo italiano, in nome della nobile sinistra, sotto qualsiasi veste si presenti. E quando vanno gli altri al potere, anche grazie a questo atteggiamento, schiacciare con il rullo compressore i tentativi di riaprire la discussione politica. Nella due giorni al teatro Santa Cecilia ci sono stati tanti interventi interessanti, oltre a quello di Minniti. Che sarebbe un ottimo candidato alla segreteria nazionale. Umberto Santino, nel commento pubblicato ieri su Repubblica, liquida senza appello questa edizione della Leopolda sicula. Definendola un incontro di reduci delle sconfitte al referendum costituzionale del dicembre 2016 e alle Politiche di marzo. A me non è sembrato. Ma per rendersene conto, piuttosto che soffermarsi solo su qualche frammento più scoppiettante e alla fine marginale, e tenuto conto che erano stati invitati tre esponenti di primo piano della sinistra esterna al Pd, si dovrebbero ascoltare tutti i cento e più contributi, reperibili facilmente in Rete. Si troveranno molta politica e tante analisi sul Mezzogiorno. Da parte di parlamentari, amministratori locali, dirigenti del partito, iscritti e invitati di varia estrazione. Tante energie e competenze immolate sull’altare della disgregazione e delle guerre intestine. Ci sarebbe però da capire cosa hanno esattamente vinto, dopo il 4 dicembre 2016 e il 4 marzo 2018, quanti si sentono a sinistra vincenti, visto che ci sarebbero i reduci perdenti. Quando ammazzi le pecore del sardo, sperando che spunti il sol dell’avvenire, non trovi più sinistra. Allora è auspicabile che si metta in discussione tale procedura e si offra, perché no?, a partire dalla Sicilia, un campo largo. Di coalizione riformista ampia parla Romano Prodi in un’intervista (5 ottobre) al Corriere della sera. L’ex premier, invitando a non confondere il riformismo con un partito, sottolinea che «le etichette del passato sono un punto di riferimento, ma non bastano». Prospetta dunque un orizzonte di fronte al quale grandi porzioni di elettorato e di società possano potenzialmente riconoscersi. Sapendo che la politica non è mai la realizzazione del paradiso in terra.

domenica 7 ottobre 2018

I mille PD che non fanno un partito.


La Repubblica Palermo
7 ottobre 2018
Il partito dem, uno, nessuno e centomila
Francesco Palazzo

Dalla Leopolda sicula emerge che i democratici devono ampliare gli orizzonti. Ma possono farlo, come perno del riformismo italiano, se risolvono il conflitto che li accompagna da sempre. Un lungo congresso permanente che in questo mese di ottobre ha come scenario Palermo e il palco del Teatro Santa Cecilia. Prima la Leopolda, il 12 il segretario nazionale, a fine mese i partigiani democratici. Tre partiti in scena, ma sono molti di più se consideriamo i tanti pezzi, nazionali e locali, in cui il PD è diviso. Offri prospettive politiche e aperture, anche inedite e ormai ineludibili, se ti presenti con un solo volto. Altrimenti, pirandellianamente, rischi di essere nessuno e centomila. Dal granaio di voti che la Sicilia sempre rappresenta per chi tiene il banco elettorale, esce fuori un partito che non ha strade da proporre perché non ne ha una propria ma tante. Come dice Romano Prodi, l’unico leader che forse potrebbe guidare il campo largo che serve, nessuna organizzazione siffatta può stare in piedi. Se non mette, aggiungiamo, in due sole gambe e in un’unica testa la propria identità.

mercoledì 3 ottobre 2018

Tutte le linee da ritrovare e rinforzare a Palermo.


La Repubblica Palermo - 3 ottobre 2018
Francesco Palazzo


Ci sono aspetti della tua città che vivi sempre allo stesso modo e a un certo punto non te ne accorgi più. Pezzi mancanti che diventano panorama ordinario. E allora devono essere i "forestieri" a fartelo notare. 
Per esempio la segnaletica orizzontale. Non parliamo dei massimi sistemi, ma è un aspetto che tocca ambiti quali la sicurezza e il decoro.
Una ragazza palermitana che studia oltre Stretto, qui per un periodo di vacanza, mi ha chiesto: «Ma come fate a vivere senza strisce?».
Ma come, stavo per risponderle, certo che ci sono le strisce. 
In realtà, facendoci caso, costeggiando il porto, il Foro Italico, Sant’Erasmo, risalendo da via Giafar, tornando da viale Regione siciliana e rientrando al centro, noti un festival di strisce divisorie di corsie non pervenute. E quelle esistenti spesso le devi immaginare, tanto sono sbiadite. Parliamo di assi centrali. Se ci addentriamo nelle periferie, meglio lasciar perdere. 
Ha ragione la studentessa. Per rimediare non occorrono chissà quali investimenti. Appena la nostra conterranea torna, gliele facciamo trovare queste strisce?


venerdì 28 settembre 2018

Beni confiscati alle mafie: fallimenti e parole.


La Repubblica Palermo 27 settembre 2018

BENI CONFISCATI  I  RITARDI  E  GLI  ALLARMI
Francesco Palazzo


Togliere le ricchezze alle mafie, che fondano il loro potere su di esse, è l’ambito, più degli altri, dove bisogna agire. Lo abbiamo capito tardi, dopo più di 120 anni se contiamo dall’unità d’Italia, visto che la legge La Torre, che individua il reato di mafia e prevede le confische, è del 1982. Fece talmente paura ai mafiosi che il leader comunista fu ucciso principalmente per questo. Il punto è che la destinazione sociale dei beni sottratti alle cosche e il destino delle imprese un tempo mafiose, molto presenti in Sicilia con 5.946 immobili e 945 aziende, numeri forniti ieri da Repubblica, sono fallimentari. Qui l’antimafia doveva vigilare con azioni decise e costanti. Invece silenzi misti a bisbigli. Da un lato ha fatto passi falsi, dall’altro si limita alle commemorazioni. Ora, dibattito non nuovo, si parla di vendita. E si grida, come sempre, al lupo al lupo, temendo riappropriazioni delle famiglie mafiose. Ma anziché lanciare allarmi a puntate, l’antimafia associativa deve, una volta per tutte e unitariamente, cambiare passo su tale aspetto fondamentale nella lotta a Cosa nostra.

mercoledì 19 settembre 2018

Papa Francesco e Padre Puglisi tra populismo, conversione e antimafia.


La Repubblica Palermo
19 settembre 2018
LA CONVERSIONE DEGLI INDIFFERENTI
Francesco Palazzo

Ora che l’entusiasmo per una giornata particolare si è posato sulla quotidianità, torniamo su alcuni messaggi lanciati dal Papa. Facciamolo guardando don Puglisi, riferimento della visita. Partiamo dall’uso del termine populismo, fatto al Foro Italico durante l’omelia. Si indica un populismo cristiano al servizio del popolo, senza grida, accuse e contese. Il populismo è arnese delicato. Ce ne sono modelli virtuosi? Può essere. Ma non dimentichiamo che Puglisi, a Brancaccio, non liscia il gatto per il verso del pelo. È un segno di contraddizione. Grida, anche dal pulpito negli ultimi tempi, accusa i mafiosi, suscita contese, pure in parrocchia, dove trova contrapposizioni. Arriva in solitudine a quel colpo di pistola alla nuca. Più che col populismo si pone come il Gesù dei Vangeli. Sferza la sua gente, la mette di fronte a se stessa, non ne asseconda ogni tendenza. Un altro tema lanciato da Francesco è quello della conversione rivolta ai mafiosi. In cattedrale però, davanti ai suoi, affronta, parlando della religiosità popolare contaminata talvolta di mafiosità, il vero tema. Che è quello del «convertiamoci » più che del « convertitevi » . È un aspetto che andrebbe declinato meglio, visto che è l’ambito decisivo nella lotta alle cosche. I mafiosi che in questi ultimi decenni si sono pentiti non sono pochi. Più difficile il ravvedimento dei non mafiosi. Il « convertiamoci » vuol dire rendersi conto che, se la criminalità organizzata ha toccato sino a oggi tre secoli, il problema — più che dai mafiosi da redimere — è costituito dai non mafiosi. Quasi sempre battezzati. E che hanno permesso tutto ciò, fatte le dovute eccezioni, con l’indifferenza o una larvata connivenza. Il «Se ognuno fa qualcosa allora si può fare molto » del beato, la cui eredità è difficile da raccogliere, va proprio nella direzione del « cominciamo a convertirci noi » . A 25 anni dalla scomparsa di Puglisi, è consapevolezza di pochi nella Chiesa. Un altro spunto proveniente dal Pontefice è l’ormai abusata affermazione su padre Pino prete non antimafioso. Sì, non faceva certo retorica o proclami a vanvera. Ma è stato ucciso per la frontale contrapposizione alla mafia, dall’altare e sul territorio. E quando diciamo che le manifestazioni e gli appelli antimafia non servono più, ricordiamoci che Puglisi va allo scontro finale con la mafia del rione promuovendo, a maggio e a luglio del 1993, a Brancaccio e non in via Libertà, due grandi manifestazioni antimafia, riprese con evidenza dai media. Inoltre mette la firma sulla richiesta del Comitato Intercondominiale Hazon di intitolare a Falcone e Borsellino una via di Brancaccio. Don Pino era, se non all’inizio della sua vicenda a Brancaccio certamente alla fine, un prete dalla esplicita connotazione antimafiosa. Che la Chiesa non voglia riconoscere tale aspetto, perché difficile da replicare, non lo cancella. Questi ragionamenti possono mettere a frutto criticamente le ore vissute con il Papa. Altrimenti rimarrà un bel sabato di sole, speso accanto a un uomo straordinario, da inserire nell’album dei ricordi.

giovedì 13 settembre 2018

Padre Pino Puglisi, il suo sacrificio e la sua difficile eredità al cospetto di Papa Francesco.

La Repubblica Palermo 
12 settembre 2018
Don Puglisi ucciso da mafia e malapolitica 
Francesco Palazzo




Cosa ha fatto Don Pino Puglisi nei tre anni a Brancaccio? Perché è stato ucciso? Cosa ha messo in atto dal 1990 al 1993 tanto da armare menti e mani mafiose? Toglieva i bambini dalla strada? Sì, ma lo facevano e lo fanno pure altri preti, mai sfiorati dai proiettili di Cosa nostra. D’altra parte, nel quartiere Brancaccio, dove sono nato e cresciuto, rione agricolo come genesi storica, quasi tutti si andava e si va a scuola, con laureati, diplomati, professionisti, professori, pure universitari, impiegati e artigiani. Lui si occupò in particolare di un’enclave di famiglie, ancora esistente, circa 150, del centro storico, ghettizzate dalla politica e inviate in alcuni palazzi di Brancaccio all’inizio degli anni Ottanta. Da allora poco o nulla è mutato. Lì si gioca tutta, o quasi, la vicenda del beato. Che per bonificare quella zona sposò la causa del Comitato Intercondominiale Hazon. Persone che volevano portare civiltà e servizi dove la politica aveva imposto isolamento e invivibilità. Questa esperienza è quella dove quel colpo alla nuca matura. E ciò è dimostrato dal fatto che tre esponenti di punta di quel comitato, che era una cosa sola con 3P, si vedono bruciare le porte di casa in una notte di fine giugno del 1993, a poche settimane dall’agguato mortale. I processi hanno mostrato che la matrice incendiaria e quella omicidiaria sono identiche. Il quadro era ed è chiaro. Puglisi muore perché vuole cambiare quel pezzo di rione, le logiche aberranti che lo guidano, mettendo in discussione la manovalanza criminale che in quei luoghi si era messa a disposizione della mafia che regnava nella zona. Il sangue di don Pino viene sparso per riscattare un piccolo lembo, creato da una politica miope, di un quartiere periferico di Palermo. E non sembri una diminutio, ma un’esaltazione dell’uomo di fede. Che in altri angoli di quella parte di Palermo, il rione bidonville dello Scaricatore e l’agglomerato di case popolari senza servizi, adiacente alla chiesa di San Giovanni degli Eremiti, aveva operato allo stesso modo. A dimostrazione che alla malapolitica e alla mafia creava (crea?) profondo malessere la circostanza che la chiesa si interessi non soltanto di sacramenti, si possono citare i quattro anni, dal 1985 al 1989, in cui a San Gaetano, la parrocchia dove viene inviato nell’ottobre del 1990 don Puglisi, arriva un giovane prete, Rosario Giuè. Che spende il suo sacerdozio senza riverenze nei confronti della politica e senza timori di fronte alla cosca mafiosa di Brancaccio. Provocando le stesse reazioni da parte della malapolitica, della mafia, dei suoi sgherri e dei colletti bianchi al suo servizio. Ma come si agiva in queste due vicende pastorali e sociali? Forse implorando assistenzialismo e distribuendo carità attraverso le casse pubbliche? No, venivano chiesti diritti, promozione umana, infrastrutture, rispetto della programmazione comunale, incontri con le giunte comunali in parrocchia. Si cercava la canna per pescare e non il pesce dato a buon mercato dalla politica e dal volontariato, laico o religioso, che si limita al paternalismo che nulla sposta. Il senso del "Se ognuno fa qualcosa" puglisiano si muoveva in tale direzione e le coppole storte lo capirono subito. Ora le domande sono le seguenti. Dal 1993 a oggi i parroci, le realtà parrocchiali, la chiesa di Palermo, sono stati e sono presenti con lo spirito e il metodo di don Pino, mettendosi di traverso alla politica e alla criminalità, oppure ha finito per prevalere un cattolicesimo che non sposta una foglia? Oltre le scomuniche e i documenti dei vescovi, le omelie infuocate nei duomi, si resta sotto i campanili, dove non si reca fastidio a nessuno? La visita del successore di Pietro nei luoghi di don Pino, proprio perché è un imprimatur d’ora in poi inamovibile sul suo sacrificio, dovrebbe consentire a tutta la comunità cattolica siciliana di rispondere a tali fondamentali interrogativi.

giovedì 6 settembre 2018

Antirazzismo e Costituzione: i cinque passi della Sicilia.


La Repubblica Palermo – 5 settembre 2018

ANTIRAZZISMO I SEGNALI DALLA SICILIA

Francesco Palazzo



Anche in Sicilia si registrano, come altrove, intolleranze etniche. 
Ma, a differenza delle altre regioni, dall’isola partono cinque segnali. 
Il manifesto antirazzista che va verso le 18 mila firme. L’appello di Maurizio Muraglia su Repubblica, affinché la scuola non resti silente sul tema. La reazione positiva del mondo scolastico. La lettera alle scuole del comune di Palermo perché tra i banchi si promuova l’accoglienza. La negazione della comunione del parroco di Bagheria ai razzisti. 
Nei cinque casi gli agganci non sono di parte ma stanno piantati nella Costituzione. 
Ci riferiamo, per chi è già dentro e per chi bussa, all’articolo 3: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione...», e all’articolo 10: «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica...». Dove la carenza di democrazia è pure economica. Visto che tanta umanità non ha di che sfamarsi.





venerdì 31 agosto 2018

I passi indietro nella lotta al pizzo.


La Repubblica Palermo
30 agosto 2018
SULLA STRADA INDICATA DA LIBERO GRASSI
Francesco Palazzo

Ieri abbiamo ricordato Libero Grassi a 27 anni dall'omicidio. 
Oggi il pizzo, come rilevato dalle indagini che si ripetono con poche varianti rispetto al passato, è ancora largamente praticato da Cosa nostra. E, pur con uno Stato più presente e reattivo, moltissimi pagano e sempre meno si rivolgono alle forze dell’ordine. Perché succede questo? 
Dagli adesivi di Addiopizzo, correva il giugno del 2004, “Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”, sono trascorsi più di 14 anni. Allora sembrò che la strada intrapresa fosse quella giusta. Lo era e lo è. 
Ma dobbiamo ammettere che si sta tornando indietro. E non da ora. 
Sarà che adesso, come diceva in una bella intervista ieri su questo giornale il prefetto De Miro, la mafia è meno violenta, offre servizi ed il suo apporto è spesso cercato. Sarà che quando non si vede il sangue la criminalità organizzata diventa per molti una parte del passaggio. 
Ma è certo che il movimento antimafia su questo, come su altri aspetti critici della lotta alle cosche, deve farsi molte domande e provare a dare puntuali e operative risposte.